«Quando siamo arrivati di nuovo alla prigione di Ellebeak la donna che mi stava interrogando ha gridato: non preoccuparti, tornerai presto in Iraq». M. è un cittadino iracheno di 28 anni fuggito dal suo paese nel 2015 per scampare a una persecuzione. Oggi vive nel centro di detenzione per migranti che si trova nella parte settentrionale della Danimarca e che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha definito «una delle peggiori strutture del suo genere esistenti nell’Unione europea». Ed è lì che ha affidato a una lettera scritta a mano, in inglese, la sua testimonianza. Rischia di tornare in Iraq, condannato dal regolamento Dublino. Chiede al governo italiano di aiutarlo, perché il 27 gennaio potrebbe essere deportato nel paese da cui è scappato dalle autorità danesi.

Il regolamento n. 604 del parlamento e del Consiglio europeo del 26 giugno 2013 stabilisce che lo stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale sia quello di primo arrivo. Tuttavia nel regolamento si stabilisce anche che «uno stato dovrebbe poter derogare ai criteri di competenza, in particolare per motivi umanitari e caritatevoli, al fine di consentire il ricongiungimento di familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela». È quanto oggi si chiede all’Italia nella vicenda di M. Non soltanto. All’articolo 9 dello stesso regolamento Dublino Ter, infatti, si prevede anche «se un familiare del richiedente è stato autorizzato a soggiornare in qualità di beneficiario di protezione internazionale in uno stato membro, tale stato membro è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale». Ma le normative europee in materia migratoria sembrano essere ignorate dagli stessi stati che le hanno adottate. Basta ascoltare le storie dei “dublinati”, richiedenti asilo «trattati come pacchi».

Condizioni non umane

Nel 2017 M. aveva chiesto protezione internazionale all’Italia dopo aver lasciato la Danimarca che ne aveva rigettato la sua istanza di protezione. M. è però tornato in Danimarca nel settembre scorso, su ordine del ministero dell’Interno italiano. Ora vive da recluso, senza aver mai commesso reati, nella ex prigione di Ellebeak, che Hans Wolff, il capo di una delegazione del Consiglio europeo, ha definito «dalle condizioni spaventose. Un posto in cui i migranti trattenuti trovati in possesso di un telefono cellulare sono puniti con almeno 15 giorni di isolamento. E dove quelli a rischio suicidio per questioni di sicurezza vengono collocati denudati in una stanza di osservazione». Condizioni, quelli del centro dove è rinchiuso M. che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha definito: «Inumane e degradanti».

M. si è rivolto al team legale dell’associazione romana Pensare Migrante. «Ma prima che potessimo agire, a settembre 2020, l’Italia lo ha trasferito in Danimarca, dopo oltre 3 anni di soggiorno nel nostro paese, e nonostante la Danimarca ora lo voglia deportare in Iraq», raccontano gli operatori legali dell’associazione. La data prevista per il trasferimento è il 27 gennaio. Intanto, l’uomo è riuscito a far trapelare dal centro per i rimpatri di Ellebeak la sua testimonianza.

Attraverso un foglietto scritto a mano, in inglese, ha riferito dell’incontro avuto lo scorso 8 dicembre con funzionari iracheni e la polizia aeroportuale per organizzare il viaggio, durante il quale l’uomo ha accusato un malore ed è svenuto. Ha raccontato M: «La stessa donna che stava parlando con la polizia dell’aeroporto mi si è avvicinata mentre ero per terra, mi ha preso a calci e mi ha detto di alzarmi». I volontari di Pensare Migrante si appellano ora al governo: «La vita di M. è in pericolo e per questo chiediamo di valutare la sua richiesta di asilo, come è accaduto per suo fratello a cui è già stato riconosciuto lo status di rifugiato qui in Italia, fermando in questo modo la sua deportazione». Ma il suo caso non è isolato, anzi.

Lo scorso 29 novembre sul sito dell’associazione è comparsa una lettera firmata dai “dublinati”. Richiedenti asilo provenienti prevalentemente da paesi quali la Palestina e l’Iraq, il Libano, la Siria. «Paesi nei quali rischiamo la vita in prima persona, in cui ci sono conflitti armati che ci impediscono di vivere una vita normale, di studiare, di lavorare e di avere una famiglia».

«Non siamo pacchi»

Si legge nella lettera di M.: «L’Europa non tutela in modo uniforme i diritti dei richiedenti asilo. Infatti, nei paesi scandinavi dove siamo stati e abbiamo chiesto asilo, e in particolare in Svezia e in Danimarca, hanno rigettato le nostre richieste indicando i nostri paesi come sicuri e decretando per ognuno di noi un ordine di rimpatrio». E per questo, i richiedenti asilo “dublinati” si appellano ai magistrati italiani: «Li esortiamo a sospendere i provvedimenti di trasferimento verso i paesi competenti ai sensi del regolamento Dublino Ter, per poter attendere il giudizio qui in Italia».

Simile a quella di M. è la storia di N. Arrivata a Fiumicino il 18 novembre scorso, ha raccontato di essere fuggita in Germania, dal proprio paese di origine, perché vittima di violenza. In un primo momento, la donna aveva trovato accoglienza e rifugio. «Ma poi un giorno di novembre sono venuti a prendermi i poliziotti a casa. Non ho avuto nemmeno il tempo di prendere tutti i miei documenti. Mi hanno trascinata via. Così mi sono ritrovata in aeroporto in piena notte, in attesa del volo per l’Italia del mattino». Potrebbe essere rimpatriata in un posto in cui non sarebbe al sicuro. Come M., che dal 27 gennaio potrebbe tornare in Iraq a rischiare la vita, se il governo italiano non farà qualcosa.

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