Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Inoltre, Mannino aveva parlato anche pubblicamente delle minacce ricevute: il 15 ottobre 1991, intervista ad Enzo Biagi pubblicato su Corsera con un articolo dal titolo “Sicilia che uccide, anche con le parole”, in cui si parla dei tre mazzi di crisantemi davanti alla porta della sua abitazione; il 1° aprile 1992, articolo sul GdS: “Mannino, bomba nel comitato elettorale”, con riferimento all’attentato di Misilmeri a proposito del quale il Ministro esprime il convincimento che si trattasse di un attentato mafioso diretto contro la DC; il 5 aprile 1992, articolo pubblicato su La Sicilia, dal titolo eloquente: “L’onorevole nel mirino”; il 25 luglio 1992, articolo pubblicato su La Stampa, dal titolo: “Anche Mannino protetto in un luogo super segreto”, in cui si dà notizia che Mannino era stato trasferito in un luogo protetto fuori della Sicilia, perché, al pari di altri politici siciliani, ritenuto bersaglio di possibili e imminenti attentati, tanto da indurlo ad entrare nel nuovo governo (l’epoca è quella della pubblicazione dell’articolo di Padellaro che riporta sostanzialmente il contenuto dell’intervista ombra rilasciatagli da Mannino l’8 luglio); il 3 agosto 1992, articolo pubblicato su Il Giornale, dal titolo “La mafia minaccia Mannino” dà notizia che un rapporto del Ros aveva individuato, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, come possibili bersagli di nuovi attentati, alcuni politici siciliani e in primis Mannino, e cinque magistrati siciliani di cui si facevano i nomi; il 25 ottobre 1992: articolo pubblicato su Il Giornale dal titolo: “L’autobomba...allarme a Roma” in cui si parla di un probabile attentato a Roma con il tritolo ai danni del giudice Ayala o dell’ex ministro Mannino, indicato come leader dello Scudo crociato in Sicilia.

La sentenza d’appello del processo stralcio ne inferisce, con logica deduzione, che minacce e intimidazioni indirizzate al Mannino erano state puntualmente denunciate dall’interessato o dai suoi più stretti collaboratori (o dal personale di polizia addetto alla sua tutela); e soprattutto avevano avuto risalto mediatico anche grazie alle interviste rilasciate dallo stesso Mannino all’epoca dei fatti.

L’intervista “anonima” a Padellaro

Non sembra che dalla testimonianza Padellaro o dalle dichiarazioni de relato di Francesco Onorato siano emerse risultanze di segno contrario, e tali da inficiare la conclusione predetta.

Mannino ha riferito al giornalista Padellaro di un possibile e imminente attentato di cui gli avevano parlato, con dovizia di particolari, i carabinieri. Ma tale notizia con tutta probabilità si riferiva a quella segnalazione, pervenuta alla Dia e girata “per competenza operativa” al Ros, di cui ha parlato il generale Tavormina.

Mannino però rivelò a Padellaro anche di essere stato avvicinato da soggetti - di cui non fece nomi né indicò elementi che aiutassero a identificarli - che avrebbero fatto pressione per indurlo ad adoperarsi a favore dell’organizzazione mafiosa, spendendo la sua intelligenza e capacità d’influenza politica per procacciare concreti vantaggi e benefici ai mafiosi.

Onorato dal canto suo si è limitato a riferire di avere appreso da Salvatore Biondino che anche Mannino, così come Lima e altri esponenti politici accusati di avere voltato le spalle a Cosa nostra o di averne deluso le aspettative, era stato convocato al cospetto dei capi dell’organizzazione per rendere conto del suo comportamento.

Il collaboratore predetto non ha saputo precisare se Mannino rispose alla convocazione, o disertò l’appuntamento come Lima; ma è certo che ne era stata decretata la condanna a morte, mentre non gli risulta che tale condanna fosse stata revocata. Anzi, per la precisione, Onorato ha detto che, per quanto a sua conoscenza, non sopraggiunse alcun ordine di fermarsi: tutti coloro che erano iscritti nella black list detenuta da Salvatore Biondino delle persone da eliminare, e in particolare dei politici, dovevano essere ammazzati. E in quella lista è certo che c’era il nominativo di Mannino.

Ora non è qui in discussione l’attendibilità della “testimonianza” di Onorato con tutti i limiti derivanti dal fatto che riferisce fatti di cui non ha avuto conoscenza diretta; ma la fonte di riferimento era certamente qualificato e in grado di parlarne con cognizione di causa. Resta però il fatto che Onorato non sa se Mannino si presentò all’appuntamento, né è chiaro se tale appuntamento gli era stato dato per concedergli un’ultima chance di salvezza, o per mettere in esecuzione un verdetto irrevocabile già emesso dal tribunale di Cosa nostra. [...] L’unico elemento che può in qualche modo tornare a riscontro delle dichiarazioni de relato di Onorato è la confessione fatta dallo stesso Mannino a Padellaro di essere stato fatto segno ad avvertimenti minacciosi, sia pure sotto forma di amichevoli suggerimenti: e di tali avvertimenti si era guardato bene dal riferirne all’A.g. o ad organi di polizia.

Ma da ciò non può inferirsi addirittura la prova di una circostanza di cui neppure lo stesso Onorato può essere certo (e cioè che Mannino abbia risposto alla chiamata, e si sia messo a disposizione, nel senso di assumere l’impegno di adoperarsi per propiziare sviluppi favorevoli agli interessi di Cosa nostra), perché Biondino si limitò a dirgli che Lima aveva dato buca, cioè non si era presentato all’appuntamento, e quindi era divenuto urgente procedere alla sua eliminazione (e allora questo era diventato pericoloso, questa cosa che lui non si è presentato, ecco perché c'era la fretta di uccidere Salvo Lima. Perché quando una persona, se ci dai un appuntamento e non si presenta, si ci va subito a sparare, anche in Cosa nostra tra uomini d’onore era così, perché certamente se non si presenta vuol dire che ha capito qualcosa). Nulla gli disse degli altri politici che erano stati convocati (a me mi ha detto che l’appuntamento era stato dato a Lima con altri politici, però mi ha detto di Lima).

Ma è anche vero che nel corso della medesima disposizione, nel passaggio immediatamente precedente, aveva detto che nessuno degli altri politici convocati come Lima all’Hotel Perla del Golfo (di proprietà di un avvocato con cui Lima aveva rapporti d’affari) si era presentato («dopo la sentenza del maxi-processo c’è stato subito che avevano dato mi diceva Salvatore Biondino che avevano dato l’appuntamento a Salvo Lima e che liti aveva fatto buca, non si era presentato. Ma non solo Salvo Lima, anche queste persone che io ho parlato... di politici, di politici, tanti politici che sono stati fissati degli appuntamenti e non si sono neanche presentati»).

E tra i politici che aveva prima menzionato come obbiettivi da colpire, aveva fatto (ripetutamente) il nome di Calogero Mannino, così come quello del ministro Calogero Vizzini (lo chiama ripetutamente Calogero, ma è evidente che si tratta di un lapsus, che non dà però adito ad alcun dubbio di confusione con il ministro Calogero Mannino perché a specifica domanda, il collaboratore di giustizia ha precisato che si trattava di due diversi esponenti politici, entrambi condannati a morte da Cosa nostra).

D’altra parte, la convocazione di cui parla l'Onorato risalirebbe a febbraio del ‘92, poiché la mancata presentazione di Lima indusse a rompere gli indugi e procedere alle attività propedeutiche all’esecuzione del delitto che poi avvenne il 12 marzo.

[…] E in effetti, tra le pieghe della deposizione di Francesco Onorato si rinviene un episodio minore che confermerebbe questi esiti interpretativi. Il collaboratore di giustizia ha infatti confermato quanto aveva riferito già al Borsellino Ter: circa 20 giorni dopo l’uccisione di Lima, egli si stava preparando a porre in esecuzione anche l’omicidio già programmato del figlio di Lima (Marcello). Ma il Biondino lo stoppò, dicendogli che c’erano obbiettivi più importanti a cui lavorare, e gli disse che «dovevano rompere le corna a Falcone e al dr. Borsellino e sì, a tutti quelli, c'era anche Vizzini, c’erano tutti quelli che ho detto». (Non ha qui menzionato espressamente il ministro Mannino, ma ne aveva fatto il nome poco prima insieme agli altri politici da eliminare).

In entrambe le ipotesi sopra delineate, comunque, la testimonianza de relato di Onorato non è di alcun ausilio alla ricostruzione che vorrebbe Calogero Mannino partecipe di un accordo raggiunto con i vertici mafiosi che contemplasse il suo impegno ad avviare o gettare le basi di un negoziato tra Io Stato e Cosa Nostra (in cambio della sospensione o della revoca della sua condanna a morte).

Nella prospettazione accusatoria ribadita dal p.g. nella sua requisitoria, tale ipotesi ricostruttiva viene rilanciata — non avendo la pubblica accusa rinunciato all’assunto di un ruolo decisivo del Mannino nella vicenda che qui ci occupa, ad onta della sua definitiva assoluzione nel separato procedimento a suo carico — proprio sulla scorta della testimonianza di Giovanni Brusca, che ha parlato di un improvviso stop intimatogli da Biondino quando era ormai pronto a mettere in atto il piano per uccidere Mannino.

Ma, almeno per quanto concerne il contributo testimoniale di Onorato, deve ribadirsi che, pur valutato in combinato disposto con la testimonianza del giornalista Antonio Padellaro sulla cripto intervista a Mannino, il massimo risultato che se ne può trarre è nel senso di una conferma della circostanza che, già a cavallo dell’omicidio Lima, il ministro era stato fatto segno a tentativi di avvicinamento, e ad avvertimenti minacciosi e dal tenore inequivocabile, che lo ammonivano ad adoperarsi per promuovere l’adozione di misure a favore dell’organizzazione mafiosa, come lo stesso Mannino ebbe a confidare al Padellaro.

Avvertimenti e minacce

E del resto, ulteriori riscontri fattuali alla validità di tal ricostruzione si ricavano dall’evidente intensificazione di minacce e atti di intimidazione subiti dal Ministro Mannino nel 1992, e anche dopo l’omicidio Lima, e dalla loro sequenza cronologica. Si spiega perfettamente che il risentimento e i propositi bellicosi contro Mannino da parte di Cosa nostra montino a partire dal 1991: egli era stato ministro del governo che aveva approvato alcuni dei provvedimenti più incisivi a supporto dell’azione repressiva del fenomeno mafioso.

Il link con la conclusione sfavorevole del maxi processo è indiretto: già prima che venisse emanata la sentenza, viene deliberata, prevedendo quell’esito, la strategia di attacco frontale allo Stato che contemplava l’eliminazione dei rami secchi della politica, ossia l’uccisione dei politici rivelatisi inaffidabili; e Mannino era divenuto inaffidabile, agli occhi degli affiliati a Cosa nostra, anche a prescindere dal non avere fatto nulla per favorire un esito propizio del maxi processo, al pari di Lima, o, come da ultimo sostenuto da Brusca, per non essersi interessato per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del Capitano Basile — o almeno per non avere fatto quel che Riina voleva che egli facesse per favorire una decisione favorevole — o per essere divenuto inviso alle cosche agrigentine, già solo per aver fatto parte di una compagine di governo che aveva varato un pacchetto di misure antimafia, senza che egli avesse mosso un dito per contrastarle.

E tuttavia, solo quando il verdetto emesso consacrò un esito che veniva ornai dato per scontato, si decise di passare alla fase esecutiva: per Mannino come per Lima e per gli altri politici che avevano voltato le spalle a Cosa nostra (o almeno questa era la narrazione corrente tra le fila dell’organizzazione mafiosa, per quanto fu dato conoscere ai collaboratori di giustizia che ne hanno riferito) facendo infuriare Riina.

Ma se è vero che Lima era solo il primo di una nutrita lista di uomini politici da eliminare perché avevano voltato le spalle a Cosa nostra (insieme a magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine che invece dovevano essere uccisi per avere strenuamente ed efficacemente combattuto l’organizzazione mafiosa), e in quella lista figurava tra gli altri il nominativo del Ministro Mannino, che senso avrebbe avuto rinnovare ancora fino a luglio e anche dopo la strage di via D’Amelio, minacce e intimidazioni?

È evidente quelle intimidazioni potevano ritenersi di matrice mafiosa solo ammettendo che l’intento fosse quello di concedere a Mannino un’ultima chance, e cioè, come lui stesso del resto ebbe a confidare al giornalista Padellaro, adoperarsi per salvaguardare gli interessi di Cosa nostra.

Ora, è vero che, a differenza degli atti di intimidazione oggetto di formali denunce o segnalazioni alle autorità di polizia (da parte dello stesso Mannino o di suoi stretti collaboratori), egli non fece altrettanto per le pressioni e gli avvertimenti minacciosi, magari paludati da amichevoli consigli, di cui riferì al Padellaro.

Ma è assolutamente comprensibile che non volesse renderle pubbliche, perché ciò lo avrebbe messo in grave imbarazzo, vuoi per l’identità dei soggetti da cui promanavano, vuoi perché sarebbe stato arduo farne materia di denuncia, non consistendo in minacce esplicite. Un’eventuale segnalazione non avrebbe sortito altro effetto che quello di accrescere la sua esposizione al pericolo. E tuttavia, non possiamo prenderci in giro.

Se l’ex ministro ne fece materia di rivelazioni confidenziali e off records ad un noto giornalista come Antonio Padellaro, e sapendo che egli stava curando un reportage sugli accadimenti siciliani, fu perché voleva che la notizia trapelasse all’esterno, sia pure con modalità che non lo esponessero più di tanto.

Pretese infatti che nell’eventuale articolo che il Padellaro avesse pubblicato, traendo contenuti e notizie dal loro colloquio confidenziale, non facesse il suo nome, né gli attribuisse alcun virgolettato, di tal che egli potesse in qualsiasi momento negare la paternità del dichiarato.

Ma al contempo, non si dolse, dopo la pubblicazione su L’Espresso dell’articolo “Con la morte addosso” (quello pubblicato il 26 luglio 1992, per intenderci), del fatto che esso contenesse elementi che consentivano di ricondurre proprio a lui l’innominato deputato democristiano siciliano ed ex ministro indicato dall’Arma come a rischio di attentati, nonché fatto segno a minacciose pressioni (“Dice di sé: cammino con la morte addosso. Se il deputato democristiano in cima alla lista di Cosa Nostra si attiene ai consigli dell’Arma...”; “I rapporti di polizia parlano di pressioni fortissime esercitate su quegli esponenti politici che, secondo la mafia, non hanno voluto contrastare gli inasprimenti governativi o che non fanno nulla per cambiare le cose nel senso voluto dalla piovra”. Ed ancora: “Ai parlamentari ed a ministri sotto tiro, non resterebbe quindi molta scelta: tenere duro o piegarsi...”); né avanzò nei riguardi del Padellaro alcuna rimostranza, neppure privatamente.

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