Per scoprire cosa è importante e cosa non lo è certi giornali siciliani bisogna leggerli alla rovescia. Perché le notizie più intriganti a volte sono nascoste in fondo all’articolo, affogate in un impasto che le rende quasi invisibili. O relegate in una breve di cronaca, sotto un titolo che confonde. Si può dire tutto anche senza fare capire niente. Può capitare pure che la notizia vera è quella che non c’è, la notizia mancante. È necessario affidarsi all'arte della decifrazione, faticoso esercizio quotidiano per distinguere ciò che viene rappresentato da ciò che in realtà accade.

Dove iniziare allora questo piccolo viaggio nell’informazione dell’isola se, su una o su sei colonne, nulla è mai come sembra? Dalla carta stampata imbalsamata di Palermo o dal risorto giornalismo catanese, dallo struscio con il potere o dal vizio di scrivere? Siccome i confini non sono sempre così decisi e rischieremmo di fare torto anche a chi non lo merita, cominciamo da un territorio apparentemente di periferia e da qualcuno che, con evidente compiacimento, ama definirsi «un cronista residente». Siamo a Trapani e nella sua impenetrabile e mafiosissima provincia.

Il cronista “residente” e i sindaci

Premiazione di Ester Castano e Giacomo di Girolamo, con Gianantonio Stella (Foto LaPresse)

«Talìa, c’è chidda merda», guarda c’è quella merda, avvisano più voci e in più intercettazioni captate dalle microspie quando viene avvistato in zona una sorta di disturbo della quiete pubblica locale, Giacomo Di Girolamo, direttore di radio Rmc 101 e del sito Tp24.it, uno che pratica giornalismo “di prossimità” con le sue inchieste sui padroni e sui padrini dal golfo di Castellammare alla valle del Belice.

Da come lo battezzano si capisce che da quelle parti non è particolarmente amato, eppure Di Girolamo insiste, prende querele, riceve minacce anonime, insulti e pure qualche sputo ma va avanti con i suoi resoconti sulle piccole miserie di paese o sui grandi misteri intorno a Matteo Messina Denaro.

Qualche anno fa la sindaca di Marsala, Giulia Adamo, la stessa che si vantava di ospitare un famoso festival sul giornalismo d’inchiesta, gli ha chiesto 50mila euro di danni e non per un articolo calunnioso ma «per l’intera attività pubblicistica tendente a diffamare l’immagine della città». Voce fuori dal coro Di Girolamo risultava insopportabile, evidente conferma che il giornalismo d’inchiesta piace a condizione però che si faccia lontano da casa propria.

La sindaca si è dimessa dopo la sospensione prefettizia per una condanna, Di Girolamo è ancora lì a rompere le scatole ad altri sindaci. Quelli che nel trapanese hanno la sgradevole usanza, appena eletti, di nominare nel loro staff come addetto stampa il giornalista più noto del circondario. È l’asfissia informativa, il silenzio che cala sulle amministrazioni.

A Marsala, il primo cittadino Massimo Grillo, si è superato scegliendo come portavoce direttamente un editore (l’interessato dice che è un ex, in quanto la compagine societaria è mutata) di un sito online. I fantasmi del passato in Sicilia tornano sempre.

Una trentina di anni fa nelle redazioni provinciali dei due maggiori quotidiani dell’isola, Il Giornale di Sicilia di Palermo e La Sicilia di Catania, appaltavano la cronaca comunale a un dipendente del comune e quella provinciale a un dipendente della provincia. A Caltanissetta, il corrispondente per il Gazzettino siciliano della Rai era il segretario generale del comune.

La favola della neutralità

I cronisti a Km zero però non sono tutti uguali. Come non è tutta uguale la Sicilia che racconta e si racconta, unico posto in Europa dove in poco più di mezzo secolo hanno ucciso otto giornalisti. Dai più famosi Mauro De Mauro e Mario Francese ai più sconosciuti Cosimo Cristina e Beppe Alfano, da Giovanni Spampinato a Mauro Rostagno, da Pippo Fava a Peppino Impastato. Tutti morti due volte, assassinati prima dalla solitudine e poi dai boss.

Da che parte sta oggi il giornalismo siciliano? La favola della neutralità in questa terra è un’esca velenosa più che altrove, ci sono i comprati e i venduti e ci sono i maleducati, gli appassionati, ci sono i giornalisti. Sotto, sopra e in mezzo c’è un potere politico che non di rado si mescola con il potere mafioso.

Lo scarto fra vecchi e giovani è profondo, nella nuova generazione di reporter i disubbidienti sono tanti. «E sono i figli dei nostri colleghi ammazzati, figli delle battaglie portate avanti dal giornale L’Ora e da I Siciliani, giornalisti che hanno coscienza del nostro mestiere. E la cosa più sorprendente è che il mestiere lo hanno imparato da soli e non nelle redazioni dei giornali perché quelle redazioni si erano ormai svuotate o erano state chiuse», ci ricorda Claudio Fava, giornalista anche lui prima di diventare deputato e presidente di quella commissione Antimafia siciliana che ha dedicato una relazione proprio al rapporto fra informazione e mafia.

Sono ragazzi che hanno preso un master, frequentato le scuole di giornalismo, si sono inventati sul campo perché, come dice Fava, «non avevano luoghi fisici di apprendimento». Ribelli ma con giudizio. Sono loro che vanno alla ricerca delle notizie mancanti che non trovavano un tempo sulle pagine dei due grandi giornali siciliani. Sono curiosi, assetati di sapere.

Chi osa e chi resiste

Nella foto, a sinistra, Mario Ciancio (Foto Agf)

«Cataniaaa...Palermooo...». Agli angoli delle strade delle città e dei paesi del centro Sicilia, terre di mezzo, gli strilloni urlavano e reggevano sulle braccia due mazzette di giornali, Catania e Palermo, La Sicilia e Il Giornale di Sicilia. Per oltre cinquant’anni si sono spartiti la diffusione a oriente e a occidente, tiravano più di 70mila copie.

La Sicilia ora ne vende diecimila e Il Giornale di Sicilia ottomila. Il destino, e non solo quello, li ha separati. Il primo è vivo e l’altro sembra morto, uno si mette alla prova ogni mattina come “essere giornale” e il secondo somiglia a un bollettino, uno osa e l’altro resiste.

C’è un paradosso tutto siciliano e c’è la fierezza di una redazione nelle ultime vicende de La Sicilia. Da quando l’editore Mario Ciancio è sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa, con il fiato sul collo dell’amministratore giudiziario per un paio di anni (i beni a Ciancio sono stati definitivamente restituiti nel gennaio del 2021, comprese le società che controllano il quotidiano), La Sicilia è un giornale che tenta di non farsi travolgere nell’impetuosa corrente informativa, fa approfondimenti provincia per provincia, è radicata nei borghi dove non c’è neanche la caserma dei carabinieri, si concede ancora il lusso e la tradizione degli “inviati”, i raccontatori di cose siciliane come Mario Barresi, collega giovane di fiuto astuto e raffinata scrittura.

Il direttore è Antonello Piraneo, un pragmatico, è lui che ha salvato il giornale nei suoi giorni più difficili: «Quando siamo stati commissariati potevamo lasciarci trascinare dalla tempesta o reagire d'orgoglio e di mestiere, ci abbiamo messo la faccia, siamo usciti dalle sabbie mobili, siamo andati avanti».

Le storie che pubblica La Sicilia con il gusto del dettaglio o con la sfrontatezza che fa male quasi mai si rintracciano dall'altra parte, su Il Giornale di Sicilia, foglio ufficiale della città di Palermo, informazione piatta, felpata, sempre attenta a non dispiacere al potente del momento.

E con una redazione sempre più striminzita, depotenziata, comunque estranea a un passato non proprio intemerato. Intanto c’è un nuovo editore, agli Ardizzone di Palermo è subentrato il messinese Lino Morgante che è anche a capo della società che pubblica la Gazzetta del Sud. È cambiato poco. Il Giornale di Sicilia si è scrollato di dosso le scorie degli anni Ottanta ma resta sempre noiosamente filo governativo. Non importa chi comanda, sa sempre dove posizionarsi. È nel suo dna.

Il contagio della prudenza

Omicidio del giudice Chinnici Rocco (Foto LaPresse)

Diventato famoso il suo titolo di prima pagina del 10 febbraio 1986, giorno di inizio del maxi processo a Cosa Nostra: Silenzio, entra la Corte. Dopo un secolo di omertà, finalmente era giunta l’ora di parlare ma il quotidiano palermitano invitava a tenere la bocca chiusa. Diretto per quattro decenni dalla coppia Antonio Ardizzone e Giovanni Pepi, non ha mai nascosto la sua ostilità per il pool antimafia di Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto, ospitando commenti sarcastici contro i «giudici sceriffi» e lettere grottesche «sui fastidiosi rumori delle sirene delle auto dei magistrati», firmate dai vicini di casa di Giovanni Falcone.

Dopo l’uccisione, nel gennaio del 1979, del suo cronista giudiziario Mario Francese ha dovuto fare i conti al suo interno con una mezza dozzina di bravi giornalisti in rivolta. Il vecchio editore aveva frequentazioni con i boss, dall’archivio sparivano le foto segnaletiche di Michele Greco, la notizia di un’inchiesta contro gli esattori mafiosi Nino e Ignazio Salvo (gli uomini più influenti dell’isola) era raccolta in trentadue righe nel notiziario regionale mentre i quotidiani nazionali titolavano in prima pagina.

Ardizzone e Pepi vantavano di ispirarsi al «giornalismo anglosassone», una variante in salsa palermitana, stile che in città ha fatto scuola e portato contagio in redazioni di tutt’altre radici.

In Sicilia, cinque milioni di abitanti, i giornali non hanno mai conosciuto grandi fortune. Leonardo Sciascia, in uno dei suoi ragionamenti d’arguzia, sosteneva che «qui i giornali non li legge quasi nessuno perché i siciliani sanno tutto di tutti». Eccesso letterario o nelle parole dello scrittore è rintracciabile una qualche verità?

Informazione controvento

Un piccolo grande miracolo si chiama Live Sicilia, un po’ più di dieci anni di vita, fondato da Francesco Foresta, un giornalista che una malattia ha spento troppo presto. È un sito palermitano, scoppiettante, cronache precise e mai ingessate. Il direttore Antonio Condorelli è catanese: «È ovvio che oggi la partita è molto diversa, l’informazione online ha rotto gli equilibri e noi siamo stati fra i primi a puntarci».

Ogni trenta giorni pubblicano anche “S”, fanno nomi e cognomi di mafiosi e complici, vende fra le tre e le cinquemila copie con picchi anche più alti. Ancora Condorelli: «Non è vero che non si legge più, se offri un prodotto interessante c’è chi è disposto a pagare il triplo per toccare la carta, qualcosa di viscerale».

C’è chi è fermo e imbambolato e chi spariglia, sperimenta. Dal 2006 al 2013 a Modica, provincia di Ragusa, esce Il Clandestino, “mensile fatto in casa” da cronisti come Giorgio Ruta. A Catania ci sono I Siciliani giovani di Riccardo Orioles, uno della straordinaria avventura di Pippo Fava.

E, sempre a Catania, c’è Meridionews, altro giornale online, direttrice Claudia Campese. Onori e celebrità per un’inchiesta sui cantanti neomelodici con seguito di minacce, il vero scoop è stato però quello su Morad Al Ghazawi firmato da Dario De Luca, il calvario di un ragazzo siriano arrivato con i barconi e trasformato in un terrorista dell’Isis dall’approssimazione investigativa della Digos di Ragusa.

Morad è uscito dal carcere, dopo un anno e tre mesi, quando Meridionews ha trovato le prove del pasticcio poliziesco. Informazione controvento. Ma il “sacro fuoco” del giornalismo è difficile tenerlo acceso, se ai collaboratori di giornali di carta e online un articolo è pagato dai tre euro e venti centesimi ai sette euro.

Roberto Ginex, segretario dell’Associazione siciliana della Stampa, il sindacato, ci consegna una spietata realtà: «In Sicilia non si fanno più praticanti, la maggior parte dei giornalisti sono freelance o cococo, i compensi sono mortificanti». Ginex ha ragione, come si può immaginare un giornalismo libero o appena decente a tre euro e venti a pezzo?

Direttore per 44 anni

Nino Calarco, già direttore della Gazzetta del sud (Foto LaPresse)

Nel panorama informativo siciliano manca ancora Messina. Città “a parte” affacciata sul mare che guarda Reggio Calabria, è feudo della Gazzetta del Sud. A molestare il monopolio informativo è sopraggiunto un settimanale, Centonove, che ha agitato il torpore indigeno scoperchiando il “verminaio” dell’università e della sanità.

È stato il primo anche a parlare di un “certo avvocato“ Pietro Amara e della loggia Ungheria. L’editore Enzo Basso è stato condannato per una bancarotta fraudolenta un po’ stramba, il giornale ha chiuso. Su piazza è rimasta solo la Gazzetta.

Direttore per 44 anni Nino Calarco, una legislatura da senatore per la Democrazia Cristiana, presidente anche della “Società per il Ponte sullo Stretto”. Nel gennaio 2001, intervistato da Alessandro Gaeta su Rai 2, il direttore Calarco si è presentato con candore messinese a tutta Italia: «Se la mafia è in grado di realizzare il Ponte, benvenuta la mafia».

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