Stesso copione da anni. Quando conviene, colpa ai sindaci; quando conviene, colpa a Roma. Nel mezzo, tragedie trasformate in slogan. A Milano è morta Cecilia De Astis, 71 anni, travolta da un’auto rubata guidata da quattro minorenni – dagli 11 ai 13 anni, non imputabili – poi rintracciati in un campo rom. Matteo Salvini ha acceso il megafono: «Campo rom da sgomberare subito, e poi radere al suolo. Sindaco Sala e sinistre, ci siete?». Sala parla di «vergognosa speculazione», Carlo Calenda chiede perché l’ordine allo sgombero venga chiesto al sindaco e non al ministro dell’Interno. Il 12 agosto 2025 Salvini ripete lo slogan «radere al suolo», riaccendendo il refrain già usato in passato sui campi rom.

Ordine pubblico e sgomberi su larga scala non sono pulsanti in mano al sindaco. L’Autorità nazionale di pubblica sicurezza è il ministro dell’Interno; a livello provinciale la regia è del prefetto, che convoca il Comitato per l’ordine e la sicurezza, coordina le forze di polizia statali e può anche sostituirsi al sindaco in caso di inerzia. La “sicurezza urbana” comunale riguarda decoro, convivenza e microillegalità e opera comunque sotto la supervisione dello Stato. Il quadro è definito da norme e direttive che affidano ai prefetti poteri sostitutivi e di coordinamento nelle “zone rosse” e nelle operazioni di ordine pubblico.

«Colpa del sindaco»

Non è una sparata stagionale. Nel 2016 Salvini invitava i sindaci alla «disobbedienza civile» contro la legge sulle unioni civili; nel gennaio 2019, da ministro, bollava come «incapaci» i sindaci che contestavano i decreti sicurezza («applicati dal 99%… dagli incapaci polemiche che non esistono»). Basta scorrere gli ultimi anni: nel 2021, dopo le coltellate a Rimini, la colpa diventò della ministra Lamorgese; nel 2022, per Peschiera del Garda e le baby gang, di nuovo Viminale alla sbarra. Nel 2020, all’opposizione, Salvini definiva i sindaci «in trincea» e accusava Roma di lasciarli senza fondi; pochi mesi dopo tornava a chiedere linea dura e obbedienza sulle politiche di sicurezza.

Sui campi rom, ieri piani statali firmati Maroni, oggi «ruspe»; lo slogan «li raderei al suolo con la ruspa» è ripetuto dal 2015 in poi. Oggi, a seconda della convenienza, il bersaglio si sposta: se la città è amministrata dagli avversari, la colpa ricade sul sindaco; se serve mostrare la mano forte, si chiama in causa il Viminale. Nelle stesse settimane, a seconda del colore politico, si alternano richieste di commissariamento dei Comuni e appelli all’intervento centrale.

Dove amministra la Lega

I campi rom non sono nati per sortilegio. Con Roberto Maroni al Viminale, lo Stato ha finanziato piani e aree con decine di milioni, a regia centrale, mentre gli enti locali eseguivano. Nel 2009 il Ministero dell’Interno stanziò circa 60 milioni per i “piani nomadi”, l’architettura oggi rinnegata dagli stessi che l’avevano promossa. Quella stagione ha istituzionalizzato modelli che oggi vengono maledetti a comando, come se non esistesse un prima. La cronologia smentisce l’idea di emergenza eterna e mostra un uso strumentale del tema come grimaldello identitario. Prima si istituisce, poi si invoca la demolizione.

Dove amministra la Lega, il copione si rovescia. Ferrara celebra l’arrivo dei militari di “Strade Sicure” come esito di una filiera virtuosa tra Comune e governo: la sicurezza diventa merito della sintonia istituzionale, non colpa del sindaco. Settembre 2023: l’amministrazione Fabbri saluta l’impiego di 15 unità militari in città come risultato della collaborazione con Prefettura e Viminale. In altre roccaforti, gli stessi problemi che altrove scatenano invettive diventano gestione ordinaria, senza fulmini dai vertici: nessuno addita il primo cittadino come responsabile unico, si ringraziano prefetture e ministeri per l’aiuto. La polemica si spegne quando rischia di ricadere in casa e il racconto torna amministrazione, non più crociata.

Oltre la propaganda

Il doppio binario emerge anche sulla regolazione locale: nel 2024 Salvini sostiene un disegno di legge che limita l’autonomia dei sindaci su Ztl e misure di traffico, mentre in passato accusava il governo centrale di «mettere il bavaglio» ai Comuni. Così si può stare al governo e recitare l’opposizione, usare ogni fatto di cronaca come referendum sull’avversario, trasformare le risorse statali in moneta di riconoscenza quando fluiscono verso gli amministratori amici.

Se la priorità è la sicurezza, occorre misurarsi con la realtà. Prefetture, piani, tempi, personale. Case vere per superare i campi e percorsi scolastici solidi per i minori, non conferenze stampa. Milano, per esempio, ha chiuso decine di insediamenti nell’ultimo decennio con progetti di superamento; ventiquattro soltanto nelle amministrazioni di centrosinistra, mentre il dibattito nazionale tornava a invocare «ruspe». Nel frattempo, la tempesta social indicava la scorciatoia del bulldozer. La differenza passa da qui: distribuire responsabilità secondo legge, pretendere la filiera istituzionale, misurare i risultati su obiettivi e non su post virali.

Il punto non è difendere un sindaco o attaccarne un altro. Il punto è smontare una macchina narrativa che piega le regole per ottenere consenso. Il caso De Astis è dolore, non set per la rissa. Se davvero la priorità è la sicurezza, si pretenda da chi governa la propria parte di lavoro sempre, non a giorni alterni. Alle istituzioni serve una mappa chiara; ai cittadini verità operative, non ruspe da tastiera.

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