In una piazza romana, tra vino e chiacchiere, nasce una riflessione sul benessere e sui suoi molteplici significati. Dal wellness patinato al nuovo puritanesimo della sobrietà, il benessere diventa status, consumo, distinzione. Ma forse il vero stare bene è ancora un gesto collettivo, vissuto insieme, fuori dal marketing
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola da sabato 31 maggio
«Il fatto è che wellness e benessere sono due cose molto diverse», sentenzia l’amico con cui sto dando fondo a una bottiglia di vino di martedì sera, in una piazza romana piena di persone che sono dedite alla stessa attività.
C’è aria di primavera, la conversazione che sto intrattenendo mi incuriosisce e mi interessa, le persone che ho intorno sembrano felici, alcuni bambini giocano a pallone, il vino è buono: mi sento bene.
Di cosa è fatto questo mio star bene?
Annoto la frase che ha pronunciato il mio amico e ci aggiungo, per associazione, altri due termini che completano la triade semantica del benessere nella lingua che ormai domina non solo la comunicazione ma anche l’immaginario entro il quale proiettiamo la nostra vita e le sue possibilità: wellness, wellbeing, welfare.
Di che cosa è fatta una vita spesa bene?
Secondo spa, palestre, programmi aziendali per la salute dei dipendenti, life coach e brand di bevande senza alcol, una vita ben spesa è una vita all’insegna del wellness.
Si tratta di un termine che esprime benessere psicofisico raggiunto attraverso la pratica attiva di uno stile di vita salutare: sport, alimentazione sana, meditazione e, moda recente: sobrietà.
Ma anche questo termine subisce una traslazione culturale: in inglese la «sobriety» è quasi sempre legata al «sober living», una vita senza alcol o sostanze.
In italiano, invece, sobrietà rimanda in primo luogo a un’idea di misura, semplicità, eleganza, sia nel comportamento che nello stile.
È da questi fraintendimenti linguistici che dovremmo partire per riconoscere un dato di fatto: la tendenza recente, tanto di moda nel mondo anglosassone, di astenersi dal consumo di alcol – non semplicemente ordinando dell’acqua, un succo, un crodino, ma ordinando le stesse cose che beve chi beve alcol, nella loro versione dry e spesso immotivatamente più costosa – è un sintomo di nuovo puritanesimo, ben impacchettato e venduto a caro prezzo.
Sia chiaro: non bere alcol è una scelta del tutto legittima, personale, dettata da mille ragioni e che non ha bisogno di giustificazioni.
Ma farne una campagna pubblicitaria, uno status symbol, una virtù su cui costruire la propria identità e sentirsi migliori degli altri, questo sì, è la versione nuovo millennio di un atteggiamento e una postura esistenziale piuttosto antica e, per l’appunto, storicamente anglosassone: quella dei puritani.
Capitale simbolico
chiesa anglicana guardando ai calvinisti: credevano che ogni aspetto della vita dovesse essere regolato da un principio morale superiore, con l’obiettivo di elevarsi spiritualmente e fondare la vita comunitaria sui valori della disciplina e, appunto, della purezza.
I puritani del XVII secolo cercavano di riformare laUn rigone che a guardar bene, a noi mediterranei, appare un po’ tetro.
Oggi, invece, il nuovo puritanesimo si veste di leggerezza, indossa leggings da yo
ga color pastello, sorse ggia Kombucha in caffetterie pensate per essere fotogeniche, ma conserva lo stesso impulso a disciplinare la condotta individuale in virtù di uno status superiore.Se ai tempi dei primi puritani la disciplina era funzionale alla promessa escatologica – questo mio sacrificio dimostrerà la mia predestinazione al regno dei cieli – oggi, che siamo laici e secolarizzati, ma soprattutto siamo capitalisti, il non bere, il non eccedere, il non sbragare promettono non più la salvezza dell’anima, ma una forma di elevazione sociale e simbolica.
Promettono un corpo sano, una mente lucida, un profilo Instagram attraente.
Promettono capitale simbolico, secondo Pierre Bourdieu: ovvero riconoscimento, appartenenza, prestigio all’interno di una classe sociale che fonda la propria legittimità non più solo sulla ricchezza materiale, ma sull’autocontrollo, sulla consapevolezza, sulla capacità di scegliere «il meglio per sé».
La differenza fra noi e loro, sembrano dire le campagne pubblicitarie di queste nuove bevande, è che noi siamo belli, sani, ricchi e loro invece, poverini, stanno ancora al bar a bere birra industriale in bottiglia, e per di più da ‘66 cl: in proporzione la più economica.
Un progetto da vendere
In questo contesto, anche le rinunce diventano consumi: smettere di bere è una scelta che si esibisce, un nuovo codice di distinzione che si colloca perfettamente all’interno della logica neoliberale, dove ogni aspetto della vita – dal cibo al tempo libero, dalla salute mentale alla gestione delle emozioni – è trasformato in un progetto individuale da ottimizzare, brandizzare, vendere.
È così che il benessere (quello complesso, collettivo, composto dalla triade wellness-wellbeing-welfare) smette di essere un diritto collettivo – qualcosa di serio, sociale, politico – e si trasforma in una responsabilità personale.
Non sei sano? Non sei felice?
Forse non ti stai impegnando abbastanza, forse non ti sai controllare: sicuramente sbagli qualcosa.
Sorseggiare costoso vino dealcolato, complessi mocktails con bacche di ginepro, NOgroni – versione senza alcol del Negroni – diventa performance pseudo-etica, narrazione pubblica, identità sociale costruita intorno a un ideale di purezza.
La differenza è che, mentre i puritani temevano il peccato, oggi si teme il fallimento: della propria forma, della salute, dell’autocontrollo, e quindi del proprio valore sul mercato.
A proposito di mercato: quello delle bevande analcoliche è in rapida espansione, con un valore globale che supera i 13 miliardi di dollari e una crescita annuale prevista del 7 per cento fino al 2027.
Lo hanno capito anche le multinazionali dell’alcol, tra le più potenti e aggressive al mondo, che stanno diversificando i loro portafogli investendo massicciamente nel segmento no/low alcohol.
Diageo ha acquistato Seedlip, Pernod Ricard è entrata in Almave, Constellation Brands ha investito in TÖST e Hiyo, mentre LVMH ha messo le mani su una quota di French Bloom.
Prodotti premium
All'inizio del 2024, la birra più venduta da Whole Foods – catena di supermercati bio, il cui cliente medio secondo Business Insider è una donna di 29 anni, istruita, residente sulla costa occidentale degli Stati Uniti e con un reddito annuo superiore agli 80.000 dollari – era analcolica.
Tradotto: il capitalismo non combatte i suoi eccessi e le sue nevrosi, li riassorbe, li impacchetta, li vende.
Quando si parla di bevande senza alcol, infatti, si parla di prodotti premium, con prezzi elevati e distribuiti principalmente in locali di fascia alta.
Se la retorica a cui i brand ricorrono per promuoverli è di tipo salutista – puntando su concetti come detox, clean living e benessere mentale – ciò che gli agenti di commercio spiegano a ristoratori e bartender, come racconta un articolo del New Yorker, è un’altra cosa: queste bevande sono uno strumento perfetto per fare upselling, ovvero aumentare lo scontrino medio anche con chi non consuma alcol.
Non più solo acqua, tè o succo di frutta, non più gli analcolici tradizionali (da sempre presenti nella cultura italiana), ma drink sofisticati, dall’estetica curata, con etichette pensate per compiacere un pubblico ricco e consapevole.
La retorica salutista rivela qui la sua ipocrisia: l’Organizzazione mondiale della sanità ha da tempo documentato che i maggiori danni da alcol si concentrano nelle fasce sociali più svantaggiate, nonostante siano quelle che consumano meno.
E il perché è presto detto: i più poveri hanno un'esposizione maggiore a fattori di rischio concomitanti – come fumo, alimentazione scorretta, stress cronico – un minore accesso ai servizi sanitari, meno probabilità di ricevere diagnosi precoci o trattamenti adeguati, condizioni abitative precarie e lavori più usuranti o pericolosi.
In altre parole, mentre il marketing – che detta anche il discorso pubblico – si concentra su una sobrietà patinata e redditizia, pensata per chi può permettersela, resta del tutto invisibile (e quindi politicamente irrilevante) la sofferenza reale legata al consumo problematico di alcol nelle classi meno abbienti.
Smettere di berne significa cose diverse a seconda della propria posizione sociale: per alcuni è una strategia di distinzione, un modo per segnalare appartenenza a un’élite che ha la propria vita sotto controllo; per altri è una rinuncia ulteriore, l’ennesima privazione in un contesto già segnato dalla mancanza.
Quando il consumo di alcol è una delle poche valvole di sfogo possibili, l’idea stessa della sobrietà come scelta «virtuosa» si svuota di significato e rischia di trasformarsi in un nuovo strumento di giudizio morale e stigmatizzazione.
Se davvero si vuole promuovere un consumo più consapevole di alcol, lo si faccia insieme, continuando ad abitare le piazze in modo trasversale: spazi fisici e simbolici dove wellness, wellbeing e welfare possono ancora incontrarsi e dare forma a un’idea concreta di benessere.
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