«Chi ha iniziato questa operazione militare non è stato Vladimir Putin. Mosca non aveva davvero altra scelta». Aleksandr Dugin è il filosofo sostenitore del grande impero russo, infarcito di nazionalismo e socialismo, da sempre si accompagna all’estrema destra europea, Lega di Salvini inclusa.

Dugin esalta l’invasione di uno stato sovrano. Lo fa dal profilo VKontakte, il social network russo concorrente di Facebook diventato meta degli estremisti neri espulsi dalla piattaforma americana di Mark Zuckerberg. Ogni giorno pubblica almeno due post in cui invoca la legge marziale, accusa di tradimento i pacifisti, deride gli oppositori.

Dugin è l’intellettuale che considera Putin un dio in terra, custode delle tradizioni cristiane ortodosse, il sovrano di una nuova Russia nazionalsocialista. Il filosofo è uno degli ingranaggi del sistema di disinformazione messo a punto dal Cremlino, che mentre ordina ai caccia di bombardare e ai carri armati di avanzare in territorio ucraino, combatte un’altra guerra con munizioni fatte di parole, notizie e video che descrivono come trionfante la marcia su Kiev.

Dugin collabora con alcune riviste fondate dagli oligarchi, sostenitori di Putin e riferimento dei movimenti pro life, anti abortisti e contro i diritti Lgbt. La propaganda del Cremlino si fonda su un mix di media pubblici e canali informativi privati. Ci sono le testate che trasmettono in tutto il mondo finanziate dal governo, come RT e Sputnik. E quelle fondate da miliardari ortodossi che si rivolgono a nicchie di qualche milione di utenti affascinati dal nazional-sovranismo.

I falsari di Putin

L’invasione dell’Ucraina è solo un’operazione militare? È guerra o non lo è? Potrebbero sembrare sfumature lessicali di fronte alle migliaia di vittime civili, ma è con le parole che la Russia conduce una battaglia parallela contro l’occidente combattuta con editoriali, video e reportage, che alimentano la disinformazione.

Disinformare è un’arte. Non ci si improvvisa falsari dell’informazione, come per le copie di grandiose opere d’arte: il falso dato in pasto ai lettori digitali deve sembrare vero a tal punto da inibire la curiosità di verificare altre fonti sul web. La Russia di Putin è il laboratorio dove da ormai dieci anni si realizzano gli esperimenti più evoluti nel campo del giornalismo al servizio del potere.

La propaganda segue due binari. Sul primo, come abbiamo raccontato in una precedente puntata, viaggia il “soft power”, il potere di persuasione necessario ad accreditare il Cremlino nelle società del blocco atlantico: un reticolo di fondazioni e associazioni culturali controllate dal ministero degli Affari esteri o della Cultura lavora per offrire una narrazione rassicurante del potere putiniano attraverso la diffusione dello straordinario patrimonio artistico e culturale della Russia.

Sul secondo binario della propaganda corre la disinformazione aggressiva che stimola pulsioni di odio nei confronti dei migranti, della comunità Lgbt, dell’Europa. Da qui il gemellaggio (ideale e a volte finanziario) con i partiti europei dell’estrema destra che guardano a Putin come modello da seguire.

La messa a punto del sistema è iniziata poco prima del 2014, forse non a caso. Sono gli anni di tensioni con l’Ucraina, la fine del governo filorusso, le repubbliche del Donbass conquistate dai filorussi, l’annessione della Crimea. E ancora prima la Russia era impegnata nella guerra siriana.

Insomma, c’era, secondo diverse fonti dell’intelligence, la necessità da parte di Putin di avere una copertura mediatica internazionale non ostile. E così sono stati stanziati centinaia di migliaia di dollari per realizzare una grande struttura editoriale foraggiata dal governo. Sostenuta in questa crociata da altri gruppi editoriali privati di proprietà degli oligarchi fedelissimi del presidente, utili a diffondere le teorie della grande Russia paladina degli oppressi e delle tradizioni cristiane.

Cremlino international

Dmitry Konstantinovich Kiselyov è la voce di Putin per il suo ruolo nell’apparato mediatico di stato. Il suo nome è nella black list delle sanzioni del governo inglese: «Figura centrale nella propaganda di governo che ha supportato l’invasione dell’Ucraina», la motivazione dell’ufficio del tesoro inglese.

Nel 2013 Putin ha voluto Kiselyov a capo della nuova media company di stato Rossiya Segodnya, sorta per decreto presidenziale sulle ceneri dell’agenzia Ria Novosti. Lo scopo dell’iniziativa editoriale è «fornire informazioni sulla politica statale russa e sulla vita e la società russe per il pubblico all'estero».

Alla nuova società controllata dal governo fanno capo le due testate RT e Sputnik, messe al bando nei giorni scorsi dal consiglio dell’Unione europea accusate di diffondere informazioni false sulla guerra in Ucraina.

Sputnik è una testata online, ma anche radio e web tv, diffusa in 34 paesi. Sono centinaia i giornalisti che ci lavorano. La redazione centrale è a Mosca. Non tutti i paesi hanno una redazione, come nel caso dell’Italia: in un’intervista del 2017 un collaboratore spiegava che l’unico a tenere i rapporti con Mosca era Giulietto Chiesa, il giornalista morto nel 2020 e storico corrispondente dall’Unione sovietica.

Gli articoli, raccontava il giornalista, venivano inviati in Russia e lì poi pubblicati sul sito italiano. E in effetti ancora oggi non esiste un responsabile in Italia della testata.

Negli anni di ascesa dei sovranisti europei, prima del Front National e poi della Lega di Matteo Salvini, Sputnik ha amplificato i loro messaggi: frontiere chiuse, lotta all’Unione europea, lodi a Putin. Partiti coinvolti entrambi in storie di finanziamenti ottenuti o tentati con uomini del giro del Cremlino.

Il filosofo e l’oligarca

LaPresse

L’architettura della propaganda putiniana utilizza anche media privati che fanno capo a miliardari moscoviti. In particolare a Konstantin Malofeev, oligarca e finanziere con la passione per l’informazione. Tsagrad è la holding che dà il nome a una delle emittenti. Ma poi c’è soprattutto il «centro analitico» Katehon, un sito in varie lingue che oltre a diffondere la magnificenza di Putin è strumento del conservatorismo dell’estrema destra sovranista in tutta Europa.

Tra i collaboratori di Katehon c’erano ad esempio Marine Le Pen, la leader francese del Rassemblement National (in passato Front National), alleata da tempo con Salvini. Fino al 2019 una pagina era dedicata alle firme esterne, oggi è scomparsa.

Dall’Italia scrivevano invece Alessandro Fiore, figlio del leader nero Roberto, storico capo dell’estrema destra italiana, e alcuni giornalisti di CasaPound. E pure Gianluca Savoini è comparso di tanto in tanto sulle pagine web di Katehon: l’ex portavoce di Salvini che, con uomini di Malofeev e altri russi, aveva avviato le trattative per finanziare la Lega con soldi di Mosca.

«È giunto il momento per la rinascita della Russia. È iniziata una nuova grande Russia. Lo stavamo aspettando da molto tempo. Possa Dio sorgere e i suoi nemici essere dispersi!». Il commento di Malofeev è apparso su Katehon il 24 febbraio, il giorno dell’invasione dell’Ucraina. L’oligarca vede nella guerra (non scrive mai questa parola ma solo operazione militare) l’inizio di una nuova era in cui la Russia torna a essere la forza imperialista di un tempo.

Gli altri articoli pubblicati nei giorni della guerra sono imbottiti di fanatismo, persino le analisi militari sull’umore delle truppe al fronte sono funzionali a trasmettere messaggi tranquillizzanti ai russi. Tra i collaboratori c’è anche Dugin, il filosofo del putinismo: «Se la Russia perde il Donbass, perderà la Crimea. Se perde la Crimea, perderà se stessa», scrive il riferimento dei leghisti a Mosca.

Pure Dugin, eroe dei neofascisti italiani, conosce benissimo i leghista Savoini, i due si sono visti di continuo sia a Mosca che a Roma durante il periodo delle trattative condotte dall’ex portavoce di Salvini per portare a casa un finanziamento al partito.

La censura

Il primo giorno di marzo, alle 20.15, Dugin ha pubblicato un post sulla sua pagina di VKontact. Poche righe indicative della spirito autoritario del presidente Putin. Il filosofo gioiva per il blocco delle trasmissioni di Radio Eco di Mosca, storica emittente della capitale ascoltata da oltre due milioni di persone.

«Fino al 2008 mi ha invitato a parlare di tanto in tanto. L’ultima volta è stato nell’agosto 2008», scrive Dugin, «dopo questa trasmissione, la mia presenza lì è stata messa fuori legge. Sono sempre stato convinto che in Russia le proporzioni cambieranno e il patriota sarà percepito come la norma e il tradimento come una patologia. Fino a stasera, non era proprio così. L’Eco di Mosca ha mantenuto la sua fermezza: un patriota per loro è un mostro. Fino a stasera».

Finché appunto non è stata colpita dalla censura per mano del procuratore, con ordini dall’alto, per mettere a tacere una delle rare testate che davano voce all’opposizione, parlavano espressamente di guerra e non di operazione militare come imposto dalla narrazione rassicurante di Putin.

Ma la fine di Eco Mosca dimostra anche le prime crepe nel granitico sistema di potere del capo del Cremlino. E per quanto Dugin finga di non vederle sono profonde: la maggioranza della radio censurata è in mano a Gazprom, il colosso energetico per ora non colpito da sanzioni. La quota di minoranza è detenuta da una cooperativa dei giornalisti interni. Il sintomo di un dissenso che cresce all’interno, un incubo per Putin e i suoi sodali concentrati con tutte le loro energie sul fronte esterno della guerra.

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