La morte di Benedetto XVI ha riaperto la questione della rinuncia papale mentre si avvicina il decennale dell’11 febbraio 2013, quando papa Ratzinger annunciò in latino davanti a un gruppo di cardinali e prelati che avrebbe lasciato il pontificato alle 20 del 28 febbraio successivo.

Quel giovedì, alle 17.38, dalla loggia del palazzo papale di Castel Gandolfo, volle ripeterlo con le sue ultime parole pubbliche – «questo mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più sommo pontefice della chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più» – congedandosi con una benedizione e parole normalissime, quasi a stemperare la densitàera di quanto stava per accadere: «Grazie, buona notte! Grazie a voi tutti!».

Dimissioni

Sulla decisione, di fatto senza precedenti, del papa bavarese si sono moltiplicati gli interventi, per l’eccezionalità del gesto e le possibili conseguenze sul papato romano. E negli ultimi giorni lo stesso Francesco è tornato ancora sulla questione, trattata anche dal cardinale Gerhard Müller nel recente libro intervista scritto da Franca Giansoldati.

Non sono però le prime dimissioni dalla sede di Roma, anche se la decisione di Benedetto XVI è davvero inedita. Nell’anno 235 il vescovo Ponziano fu condannato e mandato in Sardegna insieme al rivale Ippolito – un teologo di rilievo, considerato il primo antipapa – e rinunciò, prima che entrambi soccombessero alle dure condizioni della deportazione, tanto che i due vennero presto considerati martiri. Il gesto comunque colpì a tal punto che, forse non a caso, proprio negli anni della vicenda di Ponziano e Ippolito viene collocata, in un testo dell’XI secolo, la leggenda della rinuncia e del martirio di Ciriaco, un papa mai esistito.

Dimissioni o deposizioni di papi (e antipapi) si infittiscono nel medioevo, e teologi e canonisti iniziano a scrivere sulla rinuncia papale. Un cambio di passo si ha nel 1294 con il breve e infelice pontificato di Celestino V, il monaco Pietro del Morrone, creduto il mitico «papa angelico» ma di fatto manovrato da Carlo II d’Angiò. Dopo cinque mesi il pontefice ottantacinquenne decide di dimettersi per tornare eremita, ma il successore Bonifacio VIII – in un contesto turbolento – lo reclude nel castello di Fumone, dove muore due anni più tardi.

Il gran rifiuto

Una vicenda intricata e celebre è quella di Celestino V, canonizzato già nel 1313. In qualche modo l’anticipa Raimondo Lullo nel 1283, immaginando la storia avventurosa di Blanquerna, papa santo e riformatore che rinuncia per dedicarsi alla vita contemplativa.

Pochi decenni dopo è Dante ad alludervi con riprovazione, incontrando nel terzo canto dell’Inferno «l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto». Rimasto nella memoria, il gesto del monaco medievale è al centro dei drammi di Ignazio Silone e, prima, di Reinhold Schneider, che immagina queste parole rivolte a Pietro: «Il mondo non dimenticherà colui che fu innalzato a un rango così elevato come il tuo».

Rinunce forzate si succedono dopo il 1378, quando va in pezzi la Christianitas occidentale, che per un quarantennio si divide fra due e persino tre papi in contesa tra loro, con strascichi sino all’abdicazione nel 1449 dell’antipapa Felice V, un Savoia. Secoli più tardi si pongono il problema di un’eventuale rinuncia di Pio VI, che dopo la proclamazione della Repubblica romana muore nel 1799 deportato in Francia, poi Pio XII nel 1943 per una simile minaccia progettata da Hitler ma mai attuata, e Giovanni XXIII nelle ultime settimane di vita per la malattia che l’avrebbe portato alla morte.

Tutto cambia con Paolo VI, che sa confrontarsi con la modernità e nello stesso tempo riflette sull’enorme responsabilità affidata al successore di Pietro. Il 30 giugno 1965 scrive il suo testamento, ma due mesi prima, il 2 maggio 1965, in tre pagine autografe – dove usa la prima persona plurale – dichiara, nel caso «di infermità, che si presuma inguaribile, o di lunga durata, e che ci impedisca di esercitare sufficientemente le funzioni del nostro ministero apostolico; ovvero nel caso che altro grave e prolungato impedimento a ciò sia parimente ostacolo, di rinunciare al nostro sacro e canonico ufficio, sia come Vescovo di Roma, sia come Capo della medesima santa Chiesa cattolica».

Ma queste «dimissioni, che solo il bene superiore della santa Chiesa ci suggerisce», non si verificheranno, perché il papa morirà quasi all’improvviso nel 1978, non ancora ottantunenne.

Predire il futuro

A trascrivere le stesse parole dal documento di Paolo VI, ma in prima persona singolare, è il 15 febbraio 1989 Giovanni Paolo II. Testi simili sono firmati da Benedetto XVI nel 2006, secondo il suo segretario Georg Gänswein nel libro intervista con Saverio Gaeta, e da Francesco pochi mesi dopo l’elezione, come lo stesso papa ha rivelato nell’intervista sul quotidiano spagnolo «Abc» del 18 dicembre scorso, specificando di aver consegnato la lettera al segretario di stato Tarcisio Bertone, che nell’autunno del 2013 venne sostituito da Pietro Parolin.

La decisione di Ratzinger maturò nell’aprile del 2012, dopo il viaggio in Messico e a Cuba che sfinì il pontefice, e fu preparata in segreto nel corso dell’anno. Ma Benedetto XVI già nel 2010 aveva detto a Peter Seewald, nel libro intervista Luce del mondo, che «quando un papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi».

Oltre un trentennio prima Ratzinger, da poco più di un anno cardinale, aveva celebrato il 10 agosto 1978 la messa per Paolo VI appena morto. Papa Montini – disse l’arcivescovo di Monaco e Frisinga – «ha lottato intensamente con l’idea di ritirarsi. E possiamo immaginare quanto debba essere pesante il pensiero di non poter più appartenere a sé stessi. Di non avere più un momento privato. Di essere incatenati fino all’ultimo, con il proprio corpo che cede, a un compito che esige, giorno dopo giorno, il pieno e vivo impiego di tutte le forze di un uomo».

Paolo VI, soprattutto, «non provava alcun piacere nel potere», e per questo l’autorità, vissuta come servizio, di nuovo «è diventata grande e credibile». Senza saperlo, il prelato 51enne stava descrivendo il proprio futuro.

Un regolamento

Nuove sono state dunque la rinuncia di Benedetto XVI e la decennale coabitazione in Vaticano con il suo successore, tutto sommato tranquilla ma non priva d’incidenti, provocati soprattutto dalle rispettive tifoserie di Ratzinger e Bergoglio, peraltro molto diversi tra loro.

Una situazione che con qualche esagerazione è stata descritta dal cardinale Müller – critico della decisione di Benedetto XVI e nettamente contrario ai papi emeriti – come «un dualismo non codificato» che ha «alimentato il disorientamento», anche se poi afferma, stavolta con ragione, che non si possa «fare un regolamento sulle dimissioni, anche perché il papa è sempre libero e può modificarlo a suo piacimento».

Soluzioni giuridiche sono invece proposte con vivacità nel libro Papa, non più papa (Viella) da Geraldina Boni sulla base di prolungate consultazioni internazionali tra i colleghi. Curato dagli storici Amedeo Feniello e Mario Prignano, il volume mette opportunamente a confronto punti di vista diversi, ma è nuovo e interessante soprattutto per due schemi finalizzati a regolamentare la «sede romana totalmente impedita» per malattia grave del pontefice – basti solo pensare agli scenari di un papa in coma evocato nelle due serie di Paolo Sorrentino, fortunatissime e suggestive – e la «situazione canonica» del papa emerito: plausibile forse il primo schema, decisamente meno il secondo, per le ragioni dichiarate da Müller.

Sulla coabitazione con Benedetto XVI e su un’eventuale normativa della rinuncia papale è però tornato papa Francesco in una lunghissima intervista in spagnolo con Nicole Winfield dell’Associated Press lo scorso 24 gennaio. «La convivenza è stata, io direi da parte sua, eroica. Perché non è facile inventare una convivenza così dopo mille anni».

Se rinunciassi – ha poi detto il pontefice evocando un’eventualità del tutto improbabile – sarei «vescovo emerito di Roma» e andrei nella «casa del Clero di Roma». E un regolamento per disciplinare il papato emerito? No se me ocurrió, «non ci ho pensato» ha ribadito, ripetendo quanto aveva detto nell’intervista su «Abc» un mese prima: «Sarà che lo Spirito santo non ha interesse che mi occupi di quelle cose».

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