Nell’ultima udienza del processo ai mandanti della strage alla Stazione di Bologna è stato ascoltato il giudice Renato Bricchetti, oggi presidente della VI sezione penale della Cassazione, già Giudice Istruttore a Milano. Fu lui a interrogare Licio Gelli nel maggio del 1988 senza chiedergli nulla in merito al “documento Bologna”, quello da cui ha preso il via l’indagine attuale e di cui vi abbiamo già raccontato su questo giornale le contorte vie.

Benché estremamente importante - proverebbe il flusso di denari che dalle casse del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi sarebbero finite nelle tasche di alcuni personaggi proprio al fine di finanziare il massacro – è rimasto sepolto per oltre quarant’anni: come è stato possibile? Trovato addosso a Gelli il 13 settembre 1982 al momento del suo arresto a Ginevra, il documento gira e vola tra diverse mani e poi approda nel fascicolo processuale sul crack dell’Ambrosiano senza che nessuno si accorga della sua esplosiva intestazione: “Bologna”.

Quando Gelli accetta di tornare in Italia, nel febbraio del 1988, viene mandato nel carcere di Pavia dove resta per poco – una équipe di medici riesce a ottenere la detenzione domiciliare perché il suo stato di salute sarebbe precario, accertano – e dove si rifiuta di rispondere a ogni domanda. Lo farà solo nel maggio successivo, davanti, appunto, all’allora giudice istruttore Bricchetti: in quel breve arco di tempo il suo attivissimo avvocato Carlo Dean riesce ad intrufolarsi al Viminale e parlare con il capo della Polizia Vincenzo Parisi al quale dice: «Il mio assistito tirerà fuori tutti gli artigli se gli verranno fatte domande sul documento trovato in suo possesso».

Caspita, una vera minaccia, documentata dalla testimonianza dello stesso Parisi in una importante relazione della Guardia di Finanza del dicembre 2019 per la Procura generale bolognese: quella minaccia ha fatto sì che non venissero poste a Gelli domande scomode? Gira attorno a questo quesito l’interrogatorio di Bricchetti, il quale dice di non ricordare nulla e se ci furono responsabilità, adombra quelle dei finanzieri che gli prepararono le carte degli interrogatori.

La Procura sembra non caderci: chiede il motivo per cui Gelli fu irritualmente interrogato presso l’allora nucleo di polizia tributaria di Milano, anziché nella sede dell’ufficio istruzione, insiste intorno alla faccenda con domande varie, e poi alla fine lancia una specie di siluro: «Nel 1985, l’11 giugno, la Procura di Bologna vi inviò un fascicolo sulle attività in corso sulla strage: lo ha letto? Vi parlaste?». Si tratta di un corposo malloppo, allegato agli atti del processo Ambrosiano (fascicolo 123) dove ci sono tutti i documenti svizzeri compreso l’ormai famigerato “Documento Bologna”: insieme alla lettera furono inviati ben 216 atti giudiziari della Procura Bolognese sul tema della strage e dei depistaggi.

Inutile dire che in quelle pagine, che Domani ha potuto visionare, Licio Gelli è protagonista citatissimo. Quando Bricchetti lo interroga – 2 e 3 maggio 1988 – il processo nel capoluogo felsineo è in pieno svolgimento - nel successivo luglio verrà emessa la sentenza di primo grado - l’Italia ne parla, tutti ne parlano: come è possibile che a lui, il signore della loggia P2, depistatore dell’inchiesta sulla strage non viene chiesto nulla? La Procura generale sta cercando la risposta, sarà interessante il seguito.

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