L’Australia è quel posto in cui una città come Adelaide era stata messa in lockdown totale – più di un milione di persone barricate in casa – perché un ragazzo aveva mentito sul fatto di essere entrato in una pizzeria, nonostante fosse positivo al covid. Certo, sono passati 14 mesi. Certo, intanto sono arrivati i vaccini. Ma c’è chi ha aspettato un anno e mezzo, prima di poter tornare a casa: la legislazione che ha fruttato l’appellativo  di “Stato eremita” è stata abolita gradualmente e soltanto a partire dallo scorso ottobre, con una parziale e vigile riapertura delle frontiere.

Nella tarda mattinata di ieri, con un post sbarazzino sui social network, il nove volte campione degli Australian Open Novak Djokovic si è fatto fotografare pronto a salire su un volo intercontinentale. Dopo i saluti e gli auguri di buon anno, ha informato del fatto che il suo aereo puntava verso l’Australia, «dopo aver ottenuto un’esenzione». Apriti cielo.

No-vax

A vantaggio di chi non avesse dimestichezza con l’ambiente, il numero uno del tennis mondiale ha fatto ciò che era in suo potere, da che esiste la pandemia, per rimarcare posizioni che gli sono valse il nome storpiato di “No-vax Djo-covid”.

Contrario alla vaccinazione, incline a una retorica new wave di benessere che tocca lo scibile umano (letture sciamaniche, nutrizione a-glutinica, meditazione, esercizio fisico, uso di terapie alternative come l’olio di serpente o la cura degli abbracci, riconoscimento del potere taumaturgico della preghiera), durante la prima segregazione mondiale della primavera 2020 Djokovic ha ospitato guru, olisti e propugnatori di varie teorie in lunghe dirette social, nelle quali si è dibattuto su vari concetti quali la capacità di cambiare la struttura molecolare dell’acqua grazie alla forza del pensiero, la telecinesi, la telepatia.

In questo contesto, era assai improbabile che Djokovic potesse partecipare al primo torneo Slam della stagione 2022, stanti le regole militaresche imposte dalle autorità dello Stato del Victoria a tutti coloro che calpestano il suo suolo.

Da settimane si rincorrevano voci contraddittorie sulla sua partecipazione all’evento. Il direttore del torneo Craig Tiley – uomo dal valore e dalle capacità riconosciute ampiamente nel mondo del tennis – era già stato stuzzicato, appropinquandosi la data di inizio del torneo (il 17 gennaio) in merito alla presenza o meno del giocatore più forte del mondo. Risposta costante: il torneo di Melbourne lo gioca chi rispetta le regole. E la regola è che si gioca solo da vaccinati.

Ma c’era un asterisco. L’asterisco è l’esenzione medica, il cavallo di Troia che Djokovic ieri ha annunciato di aver utilizzato, sentendo peraltro il bisogno di specificarlo: perché i giocatori, benché la materia sia moralmente discutibile soprattutto se si tratta di superstar con milioni di fan adoranti, non sono obbligati a dichiarare il loro stato vaccinale ma solo a rispettare le regole - anche sanitarie - che vengono loro imposte.

Circostanza che il campione in carica di Melbourne ha sempre invocato: «La vaccinazione è una questione medica. Una cosa privata, e intendo mantenerla tale». È fuor di dubbio, quindi, che il serbo abbia volutamente rimarcato il fatto di non essersi dovuto vaccinare, ribadendo la sua posizione antiscientifica. Se avesse voluto mantenere la riservatezza, sarebbe bastato un no comment.

La verità e le accuse

Siccome le scelte personali, sebbene sconcertanti, non possono essere sindacate, la notizia è diventata non tanto la scelta di campo di Novak Djokovic, peraltro mai scontornata nell’incertezza, quanto la presunta doppia morale dell’Australia. Che avrebbe lasciato i suoi cittadini comuni sparsi per il mondo e lontani dalle famiglie, Melbourne nel lockdown più lungo del pianeta (262 giorni nel complesso) ma avrebbe escogitato una scappatoia disonesta per assicurarsi la presenza di un fuoriclasse assoluto nel suo torneo di punta. Ma è andata davvero così?

L’assunto degli accusatori di Djokovic è che il giocatore si sia procurato un banale certificato medico di parte, magari compilato da un medico compiacente. Effettivamente, per evitare sanzioni in caso di forfait per questioni fisiche nei tornei, i professionisti del tennis sono soliti usare certificati redatti, diciamo così, senza molto approfondimento. Ma l’esenzione australiana di Djokovic ha seguìto altre strade: la sua cartella clinica è stata esaminata da due commissioni mediche indipendenti, istituite in seno al Dipartimento della salute del Victoria. Che, ha dichiarato Tiley, per sua fortuna hanno sollevato il torneo dall’obbligo di vagliare questioni così delicate.

I panel non pubblicano i risultati del loro lavoro, né conoscono l’identità del richiedente esenzione. Le commissioni non hanno, ovviamente, visitato Djokovic - che era in Spagna ad allenarsi - ma verificato che il suo stato di salute dichiarato, e per il quale chiedeva esenzione dall’obbligo vaccinale, fosse in sintonia con le linee guida approntate dal Cts australiano, che si chiama Atagi. Per ottenere un’esenzione della durata massima di sei mesi dall’obbligo vaccinale, secondo il vademecum Atagi bisogna: avere avuto miocarditi o altre infiammazioni cardiache negli ultimi tre mesi, o sussistere la previsione di un intervento chirurgico a breve, o aver patito reazioni avverse gravi dopo la prima dose di vaccino (reazioni cioè che abbiano richiesto il ricovero come le trombosi, complicazioni cardiache, shock anafilattico), oppure trovarsi in condizioni di disordine mentale. Infine, ed è qui che probabilmente casca l’asino, essere reduci da una recente infezione covid, che possa spostare avanti la data di vaccinazione da un minimo di 90 a un massimo di 180 giorni.

Il buon senso consente di escludere tutte le cause tranne l’ultima e, quindi, di ipotizzare un Djokovic positivo al covid (che già aveva contratto nel giugno 2020), forse asintomatico e quindi in grado di allenarsi e, nel contempo, di presentare le carte per poter giocare gli Australian Open senza vaccino. Motivo per cui non sarebbe partito in tempo per disputare la Atp Cup in corso questa settimana ma solo il 4 gennaio, decisamente in ritardo rispetto alle normali date di trasferimento in Australia che gli atleti osservano per smaltire il jet-lag e il cambio di clima.

Ogni altra considerazione, condivisibile o meno, sarebbe di pura speculazione. Se l’Atagi avesse concesso un pass farlocco a un campione perché si chiama Djokovic, sarebbe gravissimo. Ma andrebbe provato. Altrettanto se Djokovic avesse sottoposto all’ente documenti insinceri. Quello che si sa, è che le procedure non dipendevano da Tennis Australia ma da un organo sanitario statale. Sappiamo che Djokovic non voleva vaccinarsi, che non si è vaccinato ed è ben felice di farlo sapere al mondo e sì, è avvilente: per chiunque abbia una minima nozione dei danni prodotti e producendi dal virus nel mondo, il suo è un messaggio atroce.

E si sa pure che, delle circa 3.000 persone coinvolte nel torneo, ce ne sono «a handful», una manciata, tra i tennisti che hanno ricevuto l’esenzione. Una di queste è lui. A ben vedere, visto che di carte si parla, il problema è più ampio delle opinioni bizzarre a anacronistiche del campione di Belgrado: anche le dichiarazioni di avvenuta vaccinazione sono giocoforza sottoposte a un vaglio unicamente formale. E radio spogliatoio riferisce di casi di tennisti con residenza in Stati non così ligi, nei quali con pochi denari si ottiene un documento di (mai) avvenuta doppia e tripla inoculazione. E allora, cosa si fa? Certo, nessuno di questi ha la fama planetaria di Novak Djokovic. Ma il senso di responsabilità non si vince, neanche a Wimbledon.

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