La nuova Venus. La nuova Serena. L’erede black di cui il tennis post Williams ha tanto bisogno. Il suo nome è sempre stato associato a quello di un’altra, un onore e un fardello, la fatica quotidiana di non sporcare il paragone. Agli Us Open del 2019 ha fatto indossare a tutto il suo team una maglietta con la scritta: “Call me Coco”. Chiamatemi Coco, Coco e basta.

Ora la potremo chiamare anche la regina dell’Us Open, dopo la vittoria, in rimonta, contro Sabalenka. Così, dopo sei anni, un’americana torna a vincere il torneo. E lo fa con il punteggio di 2-6, 6-3, 6-2.

È sempre stata la più piccola, Cori Gauff, la più piccola e la più brava.«Questa bambina arriverà lontano», le dicevano ai tempi di Delray Beach, Florida, dove a sette anni si allenava per diventare una campionessa. Ma cosa vuol dire lontano? Lontano dove, lontano per chi?

A dieci anni Coco sa molto di tennis e quasi niente di tutto il resto; papà Corey, ex giocatore di basket per i Georgia State Panthers decide di farla smettere di andare a scuola. “Studierai da casa” “D’accordo papà”.

Risposta sbagliata

Intanto casa è diventata la Francia, o meglio, l’accademia di Patrick Mouratoglou, il coach di Serena Williams, delle numero uno. La prima volta che la vede, il suo futuro allenatore rimane impressionato. «Cosa vuoi fare da grande?» le chiede. «Voglio diventare la più forte del mondo e ci riuscirò». È supponenza di difesa, la sua.

Coco non ha una vera conversazione con persone della sua età da anni, quando incontra una sua coetanea non sa mai come comportarsi, non sa cosa rispondere alle domande, ha sempre paura di dire la cosa sbagliata.

A livello professionistico e non solo, il tennis ti induce a pensare che gli altri siano avversari da sconfiggere, è un pensiero adulto da cui è difficile liberarsi. Coco Gauff comincia ad averlo quando è poco più che una bambina, un altro sgarbo all’infanzia che si meriterebbe.

Un giorno palleggia con Nick Kyrgios. Il baby prodigio impressiona anche lui, che alla fine dell’ora le dice: «Arriverai lontano». «Ok» risponde lei alzando gli occhi al cielo. In realtà sta pensando: «Dimmi qualcosa che non so». «Intendevo dire che andrai davvero lontano». «Ok».

La prima tappa che porta lontano è Wimbledon. Primo luglio 2019, primo turno dei Championships: Cory Gauff contro Venus Williams. Le metafore si sprecano, vince Gauff 6-4 6-4. Al momento di stringerle la mano le dice: «Grazie». Le piacerebbe trovare le parole per aggiungere: «Senza di te non ci sarei nemmeno io». Chissà se è una fortuna.

La bambina diventa L’Erede, lo testimoniano le treccine, gli abiti dai colori sgargianti, la sicurezza con cui scende in campo. Questo è ciò che vede il mondo. Dietro, come racconta a Noah Rubin di Behind the Racquet, c’è un termine che la spaventa: depressione. Chi le sta intorno le dice che è troppo giovane per essere depressa, «sei solo adolescente»; la verità è che fuori dal campo l’adolescente passa molto tempo rannicchiata in un angolo a piangere.

Amici? Zero. Cosa significa arrivare lontano? Quando succederà? E soprattutto, una volta arrivata lontano, smetterò finalmente di essere così triste, di sentirmi così inadeguata, riuscirò a guardare negli occhi i miei coetanei non tennisti senza tremare?

Queste sono le domande che si pone Coco Gauff, in silenzio, senza disturbare genitori, coach, sponsor e tutto lo staff che le ruota intorno e in cambio di attenzioni e milioni di investimenti le chiede una cosa soltanto: vincere. È un cammino solitario e introspettivo, quello della numero sei al mondo.

La vedono tutti come una promessa e mai per quello che è realmente, una ragazza di 15, 16, 17 anni che sognava di diventare la numero uno al mondo e adesso, improvvisamente, non ne è più tanto convinta. «Non avete idea dei sacrifici che dobbiamo fare per diventare forti», ha detto un giorno Naomi Osaka, anche lei soprannominata l’erede suo malgrado.

Ne vale la pena? Non tutti i giorni. Ogni tanto si sente esausta, le capita di spaccare le racchette in campo, un gesto per cui si merita di essere fischiata. Lo sta facendo di proposito, vuole far vedere a tutti come si sente, prigioniera del campo. Ormai però è impossibile tirarsi indietro, l’America fa affidamento su di lei, il tennis afroamericano anche, e poi famiglia, sponsor, copertine di giornali.

La nonna

Coco Gauff parla spesso di sua nonna, Yvonne Lee Odom, che è stata la prima studentessa nera a integrarsi in una classe di bianchi alla Seacrest High School, nel 1961. “C’era un posto libero e mi sono seduta”. Aveva 15 anni, la stessa età di sua nipote quando ha sconfitto Venus Williams a Wimbledon. A diciassette anni, quando perde una partita Coco Gauff piange ancora a dirotto. È sua nonna Yvonne la prima a dirle: «Bambina mia, è solo una partita, è solo tennis».

Solo tennis. La seconda tappa che porta lontano è stata quella di credere alle parole di sua nonna. Il tennis è solo tennis. Il 4 giugno 2020, dieci giorni dopo la morte di George Floyd, la sedicenne Coco Gauff tiene un discorso durante una manifestazione di Black Lives Matter: «È così triste che sia qui a rivendicare le stesse cose che rivendicava mia nonna cinquant’anni fa. Non ho ancora l’età per votare, ma chiedo a voi di votare per il mio futuro, il futuro di mio fratello e della nostra gente. È l’unico modo che abbiamo per chiedere un cambiamento».

In quell’occasione Coco non trema, non ha paura di sentirsi inadeguata. Ha trovato la sua voce, non è più un santino, una promessa ancora da mantenere, è una donna che ai suoi coetanei non tennisti ha qualcosa da dire. Questa è vera fiducia, non la spocchia con cui rispondeva Ok a Nick Kyrgios e a tutti gli altri. Ed è questa fiducia che la porta ancora un po’ più vicino a quel lontano.

Preghiere sprecate

Quest’estate ha vinto il torneo di Washington e quello di Cincinnati, il primo Wta 1000 della sua carriera. A diciannove anni, dopo quattro stagioni ad altissimo livello, ora arriva la vittoria agli Us Open. Gli Stati Uniti l’hanno aspettata, e ora Coco Grauff ha restituito la riconoscenza.

Da un mese ha aggiunto al suo staff Brad Gilbert, il coach di Agassi e di Roddick che insegna ai suoi campioni (Gauff è la sua prima allieva) come vincere sporco. Soprattutto ha trovato il coraggio di parlare chiaro a suo papà. «Alla fine dei miei match, anche quando perdo, io non voglio che tu mi dica niente. Per favore, applaudi e basta. Io ho bisogno di questo». Così ha chiesto e così è stato.

Prima del primo turno di Flushing Meadows, dove avrebbe giocato sotto gli occhi di Barack e Michelle Obama, Coco Gauff si è nascosta in un angolo e si è messa a pregare. Lo fa da sempre. Preghi per il buon esito delle tue partite? Le hanno chiesto un giorno. «Macchè, sarebbe sciocco sprecare le preghiere per una partita di tennis». In fondo è solo tennis. Parola di Coco, Coco e basta.

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