Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Mannino, infatti avrebbe voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, al pari di altri uomini politici che in passato avevano come lui trescato con le cosche o con singoli esponenti mafiosi, in un momento per essa di particolare difficoltà, non avendo fatto nulla per propiziare un più favorevole esito del maxi processo, ed avendo, di contro, fatto parte di governi che avevano varato una serie cospicua di misure particolarmente incisive nella repressione del fenomeno mafioso.

In effetti, si è accertato che già alla fine del 1991, quando era alle viste che il maxi processo si sarebbe concluso con le conferme delle condanne anche per i principali boss della c.d. mafia vincente, la commissione provinciale di Cosa nostra aveva ratificato la decisione di Riina di mettere a morte i nemici storici di Cosa nostra (come i giudici Falcone e Borsellino, ma anche altri magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine) e di politici ritenuti traditori.

Il disegno di vendetta inscritto in una più ampia strategia di attacco frontale allo stato, per indurlo a più miti consigli dimostrando che Cosa nostra avrebbe reagito da par suo a quella che sembrava essere una rottura definitiva del patto di coabitazione con lo stato, suggellata dall’esito del maxi processo, fu messo in esecuzione nelle settimane successive alla conclusione del maxi processo. E l’omicidio Lima doveva essere il primo di una serie di attentati eclatanti e delitti “eccellenti”, destinati a seminare sgomento e sfiducia nel mondo della politica e delle istituzioni, tino a ridurre lo Stato in ginocchio.

Mannino era nella lista dei politici condannati a morte, ed egli era ben consapevole di quanto la sua posizione fosse assimilabile a quella di Salvo Lima, e ne aveva parlato, confidando loro i propri timori, con il M.llo Guazzelli, fino al giorno prima che questi venisse assassinato; con il collega Mancino, che dal 28 giugno sarebbe subentrato a Vincenzo Scotti nella carica di Ministro dell’interno; e con il giornalista Antonio Padellaro, cui fece una serie di rivelazioni confidenziali, con l’intesa che non sarebbero state pubblicate a suo nome.

Dopo l’omicidio Lima, il Mannino si era rivolto, per fronteggiare la condanna a morte che sentiva incombere sul suo capo, non al Ministro dell’interno o alle autorità di polizia dell’epoca, bensì al maresciallo Guazzelli, cui lo legavano sinceri rapporti di amicizia e frequentazione, ma che all’epoca svolgeva solo le funzioni di responsabile della Sezione di polizia giudiziaria della procura della repubblica di Agrigento; e, per suo tramite, al generale Subranni, comandante del Ros (nonché a Bruno Contrada, alto dirigente del Servizio segreto civile: all’epoca, Slsde).

L’omicidio Guazzelli venne interpretato dal generale Subranni — come emerge dalla testimonianza del colonnello Riccio confortata sul punto da un’annotazione autografa su una delle sue agende - come un chiaro messaggio rivolto al Mannino e agli stessi carabinieri del Ros che in quei giorni si stavano facendo carico del problema della sua incolumità. Lo stesso Riccio ha dichiarato peraltro che il mafioso Luigi Ilardo, suo confidente e ucciso il 10 maggio 1996, poco prima che venisse formalizzata la sua collaborazione con la giustizia, gli aveva rivelato che l’omicidio Guazzelli era una vicenda molto più grave di come poteva apparire.

Nelle settimane successive il Mannino s’era incontrato (più volte) a Roma con il generale Subranni e, almeno una volta, con il Subranni e Bruno Contrada insieme: per parlare con loro riservatamente della minaccia mafiosa da cui era attinto, ma anche dell’anonimo denominato Corvo 2 che era stato indirizzato a varie autorità e direttori di giornali nella seconda metà di giugno ‘92 e che, tra altre confuse e non facilmente decifrabili accuse o insinuazioni e allusioni, segnalava l’avvio di un’interlocuzione tra Cosa Nostra, nella persona del suo capo Salvatore Riina, ed il ministro Calogero Mannino.

E non è irrilevante, a parere della pubblica accusa, che il Mannino si fosse rivolto a personaggi dal profilo opaco, come sarebbe attestato dalle rispettive vicissitudini giudiziarie che li hanno visti, uno, il Subranni, indagato per il reato di associazione mafiosa (procedimento poi archiviato nel 2012); e l’altro, il Contrada, addirittura condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Entrambi, peraltro, si attivarono per rispondere alla chiamata del ministro, ma senza verbalizzare le dichiarazioni o documentarne con apposite relazioni gli incontri, e senza riferirne, in particolare il Subranni, all’ag.

A riprova del rapporto di subalternità e compiacenza del generale Subranni nei riguardi del Mannino, la Pubblica Accusa evidenziava anche che lo stesso Subranni, invece che adoperarsi per evadere la delega d’indagine che gli era stata conferita dal dott. Borsellino (titolare del procedimento aperto a seguito dell’anonimo predetto), prima ispirava un comunicato immediato del comando generale dell’Arma che liquidava l’anonimo come un tentativo di delegittimazione delle istituzioni e un cumulo di menzogne e calunnie e si compiaceva di indirizzarlo al procuratore della repubblica di Palermo con un bigliettino personale dal tono confidenziale e affettuoso; poi redigeva un’informativa di analogo tenore; e infine parlava dell’esposto anonimo direttamente con il Mannino, ossia con uno dei soggetti sui quali avrebbe dovuto svolgere accertamenti in quanto destinatario delle accuse più pesanti in esso contenute.

Nella medesima prospettiva rileverebbe la vicenda investigativa nota come mafia e appalti (dall’oggetto del primo e cospicuo rapporto informativo redatto dai carabinieri del Ros che ne compendiava le risultanze acquisite alla data del 16 febbraio 1991).

Infatti, a parere della pubblica accusa, e contrariamente a quanto dedotto dalla difesa del Mannino nel separato procedimento a suo carico e dalle difese degli ufficiali del Ros qui imputati, quella vicenda non dimostra che i Ros di Subranni denunciarono il Mannino, circostanza incompatibile con la ricostruzione dell'Accusa, ma al contrario omisero per diciannove mesi di riferire all’Autorità giudiziaria i gravi elementi acquisiti nel corso delle indagini a carico del Mannino medesimo.

© Riproduzione riservata