La corte d’appello ha emesso il verdetto: assolti Marcello Dell’Utri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Condannato il boss Leoluca Bagarella. Qui tutta la storia e come si è arrivati al processo.

Cos'è il processo di Palermo sulla trattativa stato-mafia? È lo stato che si guarda dentro, che imputa a se stesso colpe gravi, prima fra tutte quella di alto tradimento per essere sceso a patti con il nemico. La parola, trattativa, fa venire i brividi perché il nemico di cui si parla è la mafia siciliana che ha ucciso Falcone e Borsellino. Com'è possibile o solo immaginabile che lo stato possa dialogare con assassini come Totò Riina e Leoluca Bagarella, che in difficoltà estrema chieda aiuto e consigli a un mafioso come Vito Ciancimino, che si agiti convulsamente per agganciare i peggiori criminali del paese allo scopo – nel migliore dei casi – di proteggersi da bombe e ritorsioni?

Con pudore, quando scriviamo di trattativa, il più delle volte la facciamo precedere dagli aggettivo “supposta” e di tanto in tanto anche "presunta”, dimenticando che pezzi di stato mercanteggiano con le “classi pericolose” - mafia, camorra e 'ndrangheta - da quando l'Italia è Italia, cioè da più di un secolo e mezzo. Copiosa è la documentazione che si può facilmente reperire negli archivi storici. Eppure soltanto a sentirla nominare fa sempre scandalo, in molti mostrano meraviglia, incredulità. Perché? Perché dagli scaffali polverosi delle biblioteche quella parola, dopo le stragi, è transitata nelle aule di giustizia.

Indagini, pubblici ministeri, imputati eccellenti, avvocati, requisitorie, condanne che hanno provocato lacerazioni nella magistratura e nella pubblica opinione. Lo stato può anche processare se stesso e il suo passato ma mai in un tribunale o in una corte di assise. L'"anomalia” del processo di Palermo sta in questo passaggio - necessario? spericolato? - ritenuto da taluni scabroso se non addirittura intollerabile. Ed è un'anomalia che nasce da altre deviazioni molto italiane: l'uccisione di Giovanni Falcone e la ricerca di mandanti occulti mai trovati, l'assassinio di Paolo Borsellino segnato dai depistaggi degli apparati, le bombe in Continente del '93, i maneggi ministeriali o addirittura presidenziali per alleggerire il carcere duro ai boss e poi tutto il resto che è diventata cronaca del mistero degli ultimi trent'anni.

Il primo passo lo fa sempre lo stato

Subito dopo queste tragedie nazionali, ecco che abbiamo finto clamorosamente di scoprire all'improvviso che esiste la famigerata trattativa. E, come sempre è accaduto, dal 1861 alla fine della seconda guerra mondiale, non è la mafia che ha mosso il primo passo ma è lo stato che l'ha fatto.

Lo sconcerto è solo ipocrisia. Tutt'altro discorso e se, questa, è materia che può diventare oggetto di attenzioni investigative o giudiziarie. Comunque, una sentenza di primo grado ha già condannato nel 2018 alti ufficiali dell'Arma e i vertici di Cosa Nostra, insieme a loro anche il senatore della Repubblica Marcello Dell'Utri, "cerniera”, collegamento stabile fra la mafia siciliana e Silvio Berlusconi, tre volte capo del governo italiano.

Il verdetto d'appello della cosiddetta trattativa stato-mafia è atteso da un giorno all'altro. Questa storia così controversa e incandescente ha inizio alla fine dell'inverno del 1992. Palermo, è il 12 marzo del 1992 e fra i vialetti di Mondello i sicari del capo dei capi di Cosa Nostra Totò Riina uccidono Salvo Lima, l'uomo politico più potente della Sicilia e il fedele raccoglitore di voti e di segreti di Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro.

I killer inseguono Salvo Lima che cerca la fuga, gli sparano alle spalle come si fa con i traditori. Deve pagare perché non ha mantenuto le promesse, “il buon esito del maxi processo” istruito dal giudice Falcone e che appena due mesi e mezzo prima - il 30 gennaio - si è concluso con una raffica di condanne per il vertice dell'associazione criminale. È la prima volta che la mafia viene condannata in quanto mafia, nel marmo della giurisprudenza viene scolpito che la mafia esiste davvero, non è una favola. Il pomeriggio di quel 12 marzo Giovanni Falcone, che intanto è stato nominato direttore generale degli Affari Penali del ministero della Giustizia, si precipita a Palermo e dice a Paolo Borsellino e una mezza dozzina di magistrati riuniti in una stanza della procura della repubblica: «Da questo momento può succedere di tutto».

Succede di tutto

E di tutto infatti succede. Le condanne in Cassazione rompono un patto fra poteri legali e illegali che resiste da decenni, la mafia siciliana che ha messo in conto gli ergastoli in primo e secondo grado, capisce che senza l'"aggiustamento” sperato è ormai all'angolo. Ma non c'è solo Cosa Nostra alle corde. Alla fine della primavera si vota per il nuovo Presidente della Repubblica, la corsa verso il Quirinale di Giulio Andreotti è finita. L'omicidio del suo amico Lima l'azzoppa e per lui è l'inizio di una lunga vicenda giudiziaria che lo porterà alla sbarra con una mezza condanna (reato prescritto) e una mezza assoluzione per insufficienza di prove. Con l'uccisione di Salvo Lima la Cosa Nostra si ritrova improvvisamente in Sicilia senza più "copertura” politica. La tensione sale. Tutto ciò che era scontato non lo è più.

Lima e Andreotti erano una sorta di punto di equilibrio fra stato e mafia, il delitto del 12 marzo fa saltare il banco. C'è un clima di terrore. Si spaventano in tanti. Il ministro delle Poste Carlo Vizzini, il ministro della Giustizia Claudio Martelli, il ministro della Difesa Salvo Andò. E naturalmente Giulio Andreotti. Ma il più sgomento - questa è la tesi dell'accusa che però sarà smentita in ogni grado di giudizio - è il ministro siciliano per gli Interventi straordinari per il Mezzogiorno Calogero Mannino. Si sente in pericolo, sostengono i pubblici ministeri di Palermo. E, per salvarsi la pelle, contatta il capo dei reparti speciali dei carabinieri Antonino Subranni e il capo della polizia Vincenzo Parisi per avviare un patto con i boss. Tesi assolutamente "infondata e totalmente illogica”, sentenzierà la Cassazione.

Calogero Mannino già processato con rito abbreviato sarà assolto definitivamente nel 2020. Ma Totò Riina è già inghiottito nel suo delirio di onnipotenza e ha già deciso (sicuramente non in solitudine) chi deve abbattere: Giovanni Falcone, il nemico di sempre. Ordina ai suoi di preparare un agguato a Roma, il giudice gira per la capitale senza scorta, va a mangiare con amici e colleghi a Campo de' Fiori, passeggia tranquillo sul Lungotevere. E' un bersaglio facile, i killer lo pedinano. Ma il capo dei capi richiama i sicari in Sicilia, perché Falcone deve morire "in un altro modo”. E' il 23 maggio 1992, la bomba, l'autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, il cratere. A Palermo la terra trema e a Roma, dopo quindici fumate nere, deputati e senatori non riescono ancora ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Poche ore dopo l'attentato viene scelto Oscar Lugi Scalfaro.

Premonizioni

È una strage "stabilizzante” per la politica italiana che, qualche settimana prima, era stata avvertita dalla velina di una piccola agenzia giornalistica "di un botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario”. Premonizioni.
Sono passate due settimane dall'uccisione di Falcone, il paese è sprofondato nella paura e due carabinieri del Ros - i reparti speciali - il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, cercano l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino per provare a catturare a Totò Riina che è latitante dal 1969. Mori e De Donno vogliono il capo dei capi per fermare le stragi Patteggiano. E' la prima trattativa. Autonoma o per conto terzi? «Di nostra iniziativa e per non avere più stragi», dicono. Ma l'inchiesta di Palermo accerterà che almeno tre persone sono a conoscenza dell'"iniziativa” di quei carabinieri: il ministro della Giustizia Claudio Martelli, il direttore degli Affari Penali di via Arenula Liliana Ferraro (quella che ha sostituito Falcone al ministero) e il presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante. E' Massimuccio Ciancimino, il figlio più piccolo di don Vito, a svelarlo nelle sue spericolate e fantasiose confessioni ai pubblici ministeri. Forse è la sua sola verità. Basta per aprire un varco alla ricerca di qualcosa che qualcuno vuole tenere segreta. Chi sa, davvero, cosa sta accadendo in quelle settimane d'estate successive all'uccisione di Giovanni Falcone? Cinquantasette giorni dopo la bomba sull'autostrada, salta in aria Paolo Borsellino. Secondo i magistrati di Palermo c'è stata un'"accelerazione” nell'ideazione del massacro di via D'Amelio, Borsellino si era messo di traverso al dialogo e l'hanno ammazzato. Poi comincia una seconda trattativa. C'è chi “si fa sotto” con Totò Riina, che intanto prepara il suo "papello”, le richieste per far cessare gli attentati. Vuole benefici di legge per il popolo di Cosa Nostra, nuove norme sul pentitismo, soprattutto vuole ciò che ogni mafioso sogna dal giorno della condanna in Cassazione: la revisione del maxi processo.
 

I misteri del covo di Riina

A Roma il premier è Giuliano Amato, il ministro dell'Interno è Vincenzo Scotti, che però all'improvviso viene sostituito da Nicola Mancino. La data alla quale possiamo - almeno ufficialmente - far risalire l'inizio della seconda trattativa è il 15 gennaio 1993, quando catturano Totò Riina dopo 24 anni e 7 mesi di latitanza. E' un arresto misterioso. Lo fanno i carabinieri del Ros, quelli comandati dal generale Subranni e dal colonnello Mori, lo stesso Mori che ha agganciato Vito Ciancimino. Il covo del boss non viene perquisito per diciannove giorni, quella mattina non prendono altri mafiosi che erano riuniti in summit, la procura di Palermo guidata da Caselli aprirà un'inchiesta con un ritardo di qualche anno. Alla vigilia del 15 gennaio, il ministro dell'Interno Mancino sa già che il capo dei capi finirà dentro. Ci sono tutti gli indizi per alimentare un sospetto: Totò Riina è stato "venduto”, probabilmente dal suo amico Bernardo Provenzano che è già in contatto con pezzi della stato per firmare la pace. Dentro Cosa nostra ci sono due fazioni, quella legata a Riina che trasforma la mafia in terrorismo. I suoi sicari cercano di uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, poi nella notte fra il 26 maggio e il 27 esplode la bomba ai Georgorfili di Firenze, cinque morti e quarantotto feriti. Ci sono attentati anche a Roma e a Milano, i pentiti raccontano che lo "zio Totò” (imbeccato da chi?) vuole buttare giù la Torre di Pisa, a Palazzo Chigi c'è un black out che fa temere un golpe al Presidente del Consiglio Ciampi. Alla Giustizia non c'è più Claudio Martelli ma Giovanni Conso. E qui, in un'Italia nel panico, prende avvio la terza trattativa. Totò Riina è rinchiuso in un buco di cella, Bernardo Provenzano - l'altra anima di Cosa Nostra - è ancora libero e lo resterà ancora per tredici anni. All'improvviso vengono cambiati tutti i vertici del Dap, il dipartimento dell'amministrazione carceraria. Al Quirinale c'è Scalfaro, che è stato ministro dell'Interno, il capo della polizia è Vincenzo Parisi. Al Quirinale vengono recapitate minacciose lettere dei familiari detenuti al 41 bis, c'è tensione. Come sempre lo stato fa la voce grossa ma sotto sotto cala le braghe. Alla fine di quel 1993, dopo gli attentati di Firenze e Roma e Milano, 441 mafiosi al carcere duro tornano al regime di “normalità”. Il ministro Conso garantisce che è «stata una autonoma decisione», i magistrati non gli credono e lo indagano "per false dichiarazioni ai pm”. E' la "ragion di Stato” a dare sollievo a quei 441 mafiosi? La paura? O che altro di indicibile? La Cosa Nostra che fa riferimento a Totò Riina non molla. E sta preparando la prossima mossa. Il vecchio boss in carcere è furibondo, racconta ai suoi «che io non ho cercato nessuno ma mi hanno cercato loro», dice ai suoi che ci vuole «un altro colpetto».

Il “paesano nostro”

L'altro colpetto è una strage allo stadio Olimpico di Roma, è fissata per domenica 23 gennaio 1994, si gioca Roma-Udinese. L'obiettivo mafioso è uccidere "almeno 100 carabinieri”. Ma il congegno che deve provocare l'inferno s'inceppa. S'inceppa o la mafia che comanda ha già fatto la pace con lo stato? Tre giorni dopo il "fallito attentato” all'Olimpico, il 26 gennaio, Silvio Berlusconi annuncia la sua discesa in campo con uno spot che viene trasmesso per la prima volta dal Tg4, il famoso «L’Italia è il paese che amo».

Quattro giorni dopo, a Milano, vengono arrestati Giuseppe e Filippo Graviano, gli irriducibili di Cosa Nostra che con Leoluca Bagarella vogliono ancora seminare terrore. E all'inizio di quella settimana del gennaio 1994 - svelerà il pentito Gaspare Spatuzza - lui stesso è faccia a faccia a Roma con Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma. Metterà a verbale: «Mi fece il nome di Berlusconi. Gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il paesano nostro Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani». E' la fine della terza trattativa. Silvio Berlusconi è al governo, accanto lui "il paesano nostro”.

Tutto è pronto per ricambiare la “cortesia”, è il decreto Biondi su corruzione e concussione, ma contiene anche una norma sulla carcerazione preventiva. Tutto e pronto ma tutto salta perché il governo cade. Dai bracci del 41 bis monta il risentimento contro Dell'Utri che viene considerato "bersaglio di attentati” e contro Berlusconi che - come già in precednza Lima - non mantiene le promesse. "Iddu pensa solo a Iddu”, è scritto su uno striscione dall'inequivocabile significato esposto dai mafiosi alla curva sud dello stadio della Favorita.
Ricostruizione firmata dalla procura di Palermo, indagini aperte dal sostituto procuratore Antonio Ingroia e poi proseguita - quando lui ha intrapreso una sfortunatissima avventura politica - da Nino Di Matteo, Paolo Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia. Scriveranno i giudici della corte di assise nelle motivazioni della loro sentenza di condanna: «Berlusconi sapeva dei contatti fra Dell'Utri e Cosa Nostra».

La pace è firmata

La pace c'è e non è solo sulla carta. A Palermo, da quel momento, non si spara più. Gli unici botti sono quelli che si sentono al Festino per Santa Rosalia, la patrona della città. Questa inchiesta prende corpo anno dopo anno, ma i pm psono investiti da una tempesta di polemiche. Chi li descrive come "romanzieri”, chi come "fortemente ideologizzati”, qualcuno addirittura li accusa «di essersi con finalità eversive». Forse l'inchiesta non è impeccabile in ogni sua piega, certo è che quella brutta parola, trattativa, non se la sono inventata i sostituti procuratori della repubblica di Palermo. Per la prima volta compare in un documento del Servizio Centrale Operativo (Sco) della polizia di stato dell'11 settembre 1993, quattro mesi dopo la strage dei Georgofili. Protocollo 123G/731462. Oggetto: “Attentati verificatisi a Roma, Firenze e Milano”. Testo: "Nel corso di riservata attività investigativa funzionari del servizio hanno acquisito notizie fiduciarie di particolare interesse sull'attuale assetto e sulle strategie operative di Cosa nostra..i successivi attentati (dopo Falcone e Borsellino e l'attentato di Firenze, ndr) non avrebbero dovuto realizzare stragi - ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una trattativa, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali".

Non è solo la procura di Palermo a indagare sui misteri di quella stagione di sangue. Lo fa quella di Caltanissetta che scopre un gigantesco depistaggio nell’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino, lo fa la magistratura di Firenze che ha anche l'obiettivo di svelare l'identità dei «mandanti altri» degli attentati in Continente. Scavando sullo stesso fronte dei pubblici ministeri siciliani e, dopo avere ascoltato testi come l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, scrivono agli atti di un chiaro segnale «di cedimento alla mafia».

Le telefonate del Presidente

In mezzo a questo vortice ci sono del telefonate del Presidente, quattro conversazioni intercettate fra il Capo dello stato Giorgio Napolitano e l'ex ministro dell'Interno Mancino quando quest'ultimo è ancora sott'indagine nel processo di Palermo. Ne nasce un confitto violentissimo fra il Quirinale e i magistrati palermitani sulla legittimità di quelle intercettazioni, Napolitano si rivolge alla Corte Costituzionale che ordina la distruzione delle telefonate. Come finirà fra qualche ora o fra qualche giorno a Palermo? Come si pronuncerà la corte di Appello sui "traditori” della trattativa? Confermerà le condanne di primo grado della corte presieduta da Alfredo Montalto o la corte del presidente Angelo Pellino offrirà un altro quadro di quei drammatici mesi a cavallo fra il 1992 e il 1993? Nessuno è processato per “trattativa” perché non esiste un reato di "trattativa”, il reato contestato agli imputati è "minaccia e violenza a corpo politico dello stato”, disciplinato dall'articolo 338 del codice, qualcosa di difficile da dimostrare. In primo grado gli ufficiali Mario Mori e Antonino Subranni sono stati condannati a 12 anni come anche Marcello Dell'Utri, il colonnello Giuseppe De Donno a 8, il boss Leoluca Bagarella a 28 anni, Totò Riina è morto e l'ex ministro Nicola Mancino è stato assolto perché il fatto non sussiste.

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