Siccome le rassicurazioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica non sembravano sufficienti, il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha deciso di trasformarsi in una cavia. A fine agosto si è presentato nel mercato ittico di Toyosu, nella capitale, per mangiare prodotti provenienti da Fukushima. Il giorno prima, era andato a pranzo insieme a tre esponenti di spicco del suo governo, lasciandosi riprendere mentre assaggiava un sashimi di platessa, poi di polpo e infine di spigola.

Tutti pescati al largo delle coste della prefettura. Ad accompagnare, riso e verdure coltivati nei campi della zona. «Faremo tutto il possibile per colmare il divario tra sicurezza e tranquillità», aveva affermato a margine del pranzo il ministro dell’Economia e dell’Industria, Yasutoshi Nishimura. Evidentemente, però, bisogna andare oltre il possibile per convincere i vicini della regione.

A dire il vero, Tokyo si sta spendendo notevolmente per cercare di mitigare le paure alimentate dopo la decisione di rilasciare in mare, nel giro di trent’anni, oltre un milione di acque reflue contaminate dalla centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Il tragico terremoto di Tōhoku di 12 anni fa (il secondo in termini di forza mai registrato) ha distrutto tutto, centrale nucleare inclusa. Una volta messa in sicurezza, è stato attuato un piano per smaltire le acque utilizzate per raffreddare i suoi reattori.

Ma la neutralità è impossibile da raggiungere. L’Advanced Liquid Processing System ha permesso di rimuovere gran parte della contaminazione assorbita, ma nulla può contro il trizio, che non si può eliminare definitivamente. Per alcuni si tratta di un cavillo, dato che questo isotopo radioattivo tipico dell’idrogeno si ritrova anche in natura e, in alcune parti del Pacifico, a livelli molto più alti di quelli di Fukushima. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno accettato il parere della scienza senza nulla eccepire, mentre la Corea del Sud ha mugugnato, salvo poi fidarsi dei dati scientifici. Per altri, come la Cina appunto, è stato invece l’elemento sufficiente per far scoppiare una guerra commerciale con il Giappone.

Sicurezza e ritorsione

La paura di mangiare pesce contaminato ha portato Pechino a imporre il bando totale sulle importazioni ittiche nipponiche. Una ritorsione drastica, se pensiamo che Tokyo rappresenta il suo mercato del pesce primario. Non a caso, mentre Kishida addentava una fettina di sashimi, giungeva la notizia che rispetto all’anno prima si era registrato un calo di circa il 67 per cento nell’export verso la Cina e Hong Kong, che ha seguito la linea. Insieme, rappresentano oltre il 40 per cento del mercato estero giapponese. Il loro passo indietro ha quindi inflitto un danno non banale ai pescatori e agli esportatori di prodotti ittici, che hanno visto crollare i prezzi di ciò che pescavano, come capesante, alalunga, cetrioli e altri frutti di mare tanto amati dai cinesi.

Per venirgli incontro, oltre a un esposto presentato all’Organizzazione Mondiale per il Commercio (Omc) in cui si lamentava di una ritorsione «totalmente inaccettabile», a settembre il governo giapponese si è trovato costretto ad approvare un fondo da 141 milioni di dollari, da aggiungere ad altri 547 milioni.

L’intento è cercare nuovi lidi in cui sbarcare, tenendo vivo il settore. D’altronde l’obiettivo di portare a 1,2 miliardi di yen l’export di pesce rientra tra quelli da raggiungere entro la fine del decennio. L’Europa ad esempio è ghiotta di frutti di mare, con circa 12 milioni di tonnellate consumate ogni anno, mentre l’exploit del sushi sembra ormai incontenibile, venendo ormai scelto anche per un veloce pranzo di lavoro.

Tuttavia, l’Ue è lontanissima dal poter coprire il buco lasciato da Pechino. Stesso appunto vale per gli Stati Uniti. «Aspettare che i mercati di America ed Europa sostituiscano quelli di Cina e Hong Kong significa quasi creare un nuovo mercato partendo da zero», hanno spiegato dal think tank Sumitomo Corporation Global Research.

Un mare di tensione

I problemi nel Pacifico non finiscono qui. Protagonista è sempre la Cina, questa volta alle prese con una diatriba con le Filippine. Pechino nutre da sempre l’ambizione di controllare il mar Cinese meridionale e utilizza ogni modo per farlo capire ai coinquilini regionali.

Ormai undici anni fa, si era impadronita della secca di Scarborough, più vicina a Manila (250 chilometri) che alle coste cinesi (circa 900 chilometri). Malgrado nel 2016 la Corte dell’Aja abbia dichiarato che «la Cina non ha alcun diritto storico» sulle contese isole Spratly, è servito a poco: per Pechino, quanto detto è «carta straccia» che «non verrà mai riconosciuto né accettato». Circa un paio di mesi fa, il governo ha messo in pratica le sue parole e ha costruito una barriera per impedire alle navi filippine di raggiungere l’area, nota per la grande quantità di pesce.

Un confine inventato che sbarra la strada, dunque, e che impoverisce i pescatori (parliamo di circa 630 mila lavoratori), oltre a metterli in pericolo. In caso di maltempo, la secca è infatti un ottimo rifugio. Ciononostante Manila non ha alcuna intenzione di restare a guardare e, pochi giorni dopo, ha distrutto la barriera galleggiante. Motivazione: «Poneva un pericolo per la navigazione, in aperta violazione del diritto internazionale».

La situazione rimane dunque fortemente precaria e tesa. Di incidenti tra imbarcazioni di Pechino e barchini di Manila se ne registrano sempre di più, tanto che sempre meno persone credono all’elemento fortuito. A inizio ottobre scorso, tre pescatori filippini sono morti, 11 quelli salvati.

Esattamente due mesi prima, era sempre la Guardia Costiere battente bandiera cinese ad aggredire un’imbarcazione della marina filippina mentre era impegnata a rifornirsi sul proprio atollo Tomas Shoal, suscitando le ire anche di Washington. Il fatto che gli americani pattuglino costantemente l’area aumenta il rischio di uno scontro tra le due superpotenze, ai ferri corti anche per Taiwan.

L’aggressività cinese, giustificata con un senso di revanscismo nel cortile che considera di sua proprietà, sta avendo effetti impattanti. Il mar Cinese meridionale è una zona di mondo strategicamente fondamentale. Davanti allo stretto di Scarborough ci sono ad esempio gli arcipelaghi delle Spratly e del Paracel, dove passano beni dal valore di circa 3,4 trilioni di dollari. Le isole sono anche basi militari fondamentali per Xi Jinping, che da quando è salito al potere si è fatto promotore di questa politica di conquista.

Sotto i cargo, invece, ci sono almeno tremila specie diverse di pesci, malgrado rappresentino meno di un decimo rispetto a settant’anni fa. A lungo andare, questa situazione da far west ha imposto i vari governi nazionali a reinventarsi nuove rotte commerciali per esportare i propri prodotti ittici. Oltre che per salvare i pescatori, costretti a mettere a repentaglio la propria incolumità pur di svolgere il loro mestiere.

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