Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.

È una mattina fredda di gennaio. Le sirene spiegate e il frastuono degli elicotteri incombono sulla via Stella Polare e i mezzi della polizia calano in forze fino al confine col vecchio quartiere San Cristoforo. Entrano nelle dimore che ospitano la miseria, quella vera, dove “improbabili giacigli sono calunniati come letti” e si portano via uomini e ragazzi impiegati nello spaccio della droga. Giovani disgraziati, vissuti nel disagio, hanno creduto che fosse più facile vendere fumo e bustine di coca anziché lavorare. Con due notti di spaccio riesci a comprarti un iPhone, mentre lavorando un mese in nero al mercato riesci a mala pena a sopravvivere. La mattina le foto degli arrestati sono esibite nella consueta conferenza stampa. In città i benpensanti si sentono rassicurati, come sempre. Ma se si riflette un attimo c’è poco da stare sereni.

Questi sventurati condotti in carcere sono l’ultimo anello della catena del sistema sociale: la massa di manovra di un mondo dove la mafia e la “città bene” sono sfruttatori in misura eguale. La mafia gestisce i traffici reclutando ragazzi, e la Catania bene è il suo cliente finale. Sui «Siciliani Giovani», il mensile diretto da Riccardo Orioles, Matteo Iannitti dipinge il quadro con parole che meritano di essere riportate nella loro interezza: «Non esiste immagine più nitida dell’ingiustizia della nostra città: i ragazzini di San Cristoforo ammanettati e incarcerati, i boss mafiosi che fanno affari coi soldi della droga e i figli della Catania bene indaffarati a cercare un altro posto dove comprare l’erba e la coca, prima di andare a una festa, prima di farsi uno spinello sotto la luna, davanti al mare».

Un dato che a molti fa comodo nascondere – più avanti spiegheremo il perché – è che la mafia ha mollato gli ormeggi allontanandosi dalla prima linea dei reati visibili. Ai ragazzini che vendono la droga di Cosa nostra non si contesta più il reato di mafia, eppure si sa che la droga è un affare da uomini d’onore. Anche i killer d’ora in poi saranno reclutati così, tenendo separati esecutori e organizzazione. Raccontando le più recenti vicende economiche di Cosa nostra ci siamo accorti che i patrimoni e gli interessi sono oramai separati dal mondo della strada.

L’organizzazione (che era stata) violenta gioca adesso a carte coperte; si sente aggredita e monitorata; ha necessità di eludere i filtri e i controlli personali e patrimoniali; non può più sparare per aprirsi la strada degli appalti e dei traffici illeciti; deve rimanere invisibile. E dunque è assetata di alleanze istituzionali. Senza alleati che contano per Cosa nostra sarebbe già finita: dalla latitanza del suo esponente di spicco Messina Denaro, alla conservazione del suo cospicuo patrimonio. E non è più credibile che chi le garantisce appoggio lo faccia perché teme di essere ammazzato. Perché questa mafia può permettersi sempre meno le azioni di violenza visibili. Più essa si nasconde più crescono i concorrenti esterni, che sono diventati tantissimi. Ma davvero pochi di essi vengono puniti.

Impunità e ingiustizie

Va chiarito che le inchieste che contrastano la mafia militare e gli affiliati che appartengono alle famiglie sono molto ben fondate e certamente esiste ancora una compattezza di gruppo e una pericolosità di costoro anche nella dimensione militare e tradizionale. Tuttavia col progredire della mia esperienza ho iniziato a provare un profondo senso di ingiustizia nel considerare un sistema che reprime i disgraziati che si espongono sulla strada, ma conduce verso la totale impunità chi fa affari con esponenti dei clan, si arricchisce stabilendovi alleanze e consente che siano violate le regole di imparzialità nella gestione dei beni pubblici. Perché è come se si volesse una giustizia a due velocità: che vuol vedere dietro le sbarre i brutti ceffi, ma che si gira dall’altra parte per non vedere chi alimenta per proprio interesse quella medesima realtà criminale.

Detto questo sarà semplice comprendere perché i poteri pubblici e la legge penale – nella sua prevalente interpretazione – finiscano per essere molto più rigorosi con Santapaola Mazzei e i loro seguaci – che sono obiettivi visibili – piuttosto che con coloro che da esterni forniscono gli apporti che consentono a Cosa nostra di esistere o con i colletti bianchi che depredano risorse destinate agli ultimi creando disagio che si trasforma in mafia.

Ma se si crea una distanza nel criterio di affermazione della responsabilità tra “appartenenti” e “concorrenti”, tra chi interpreta i fenomeni e chi li alimenta, la mafiosità finisce per diventare una condizione sociale di ceto, al pari di un requisito di nascita o di uno stigma sociale. Si comincia a prescindere dal contributo che un individuo fornisce al fenomeno mafioso e la mafia viene invece ricercata solo laddove è riconoscibile: su base familiare, di gruppo, di affinità, di frequentazione, di solidarietà. Al mafioso di squadra si riconosce la responsabilità penale perché la rozzezza della sua condizione lo rende facilmente incasellabile dentro il 416-bis. E cioè all’interno del “tipo sociale” meritevole di carcere e di repressione. Mentre il colletto bianco generatore del disagio da cui prende le mosse quella tipologia criminale, quando viene accusato di agevolare la mafia, è considerato una vittima della giustizia, perché distante da quel modello. I sistemi penali moderni dovrebbero punire più severamente chi contribuisce all’accrescimento dei fenomeni, e invece le classi dirigenti si preoccupano del contrario. Inizia a percepirsi una distinzione tra i “dannati di mafia”, che per il solo fatto di portare un certo cognome o di essere nati in un certo quartiere non possono intraprendere una attività – perché rischiano di non poterne giustificare la legittimità – e i veri fruitori e alimentatori del fenomeno mafioso, per i quali tutte le giustificazioni sono buone per dire che non sapevano, non potevano prevedere, non immaginavano di essere entrati in simbiosi con Cosa nostra.

Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita

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