Secondo l’associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca, entro il 2026 scadono oltre duemila contratti precari. Più della metà del personale post-doc attualmente assunto è pagato con fondi Pnrr e Prin, straordinari e a esaurimento, per sopperire alle carenze storiche da parte del ministero. Gli squilibri nord-sud sui finanziamenti e il rischio di un “effetto boomerang”
Entro un anno migliaia di figure di ricerca post-doc potrebbero essere espulse dalle università e dai centri nazionali. Senza un adeguato finanziamento statale ordinario queste figure, assunte grazie a risorse finanziarie straordinarie e temporanee, tra cui i fondi Pnrr, non saranno rinnovate nei prossimi anni, rischiando di lasciare dei vuoti nel mondo accademico.
Secondo l’ultima indagine Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia), a soffrire questa situazione sono soprattutto gli Atenei del sud e delle isole.
La ricerca si fa con contratti brevi e precari
Un nuovo studio dell’Adi sulle condizioni del personale di ricerca nelle università statali (borsisti, assegnisti e ricercatori a tempo determinato) conferma ciò che da mesi associazioni e collettivi denunciano: il lavoro di ricerca nelle università è precario e instabile, con contratti brevi, spesso inferiori a un anno, e senza prospettive di stabilizzazione.
Preoccupa il fatto che molte posizioni attualmente attive scadranno entro il 2026, con un 52,8 per cento in scadenza già questa estate. Nel complesso, si stima che 2.090 persone «potrebbero essere espulse dall’università nel breve termine».
Per capire questa situazione di forte incertezza, è necessario guardare quale tipo di finanziamento è stato usato per queste assunzioni. Nel campione raccolto, per il 27,5 per cento delle posizioni la fonte di finanziamento è il Pnrr. A seguire c’è il programma Prin (Progetti di rilevante interesse nazionale, 26,1 per cento) e dopo i fondi istituzionali (24,3 per cento), quindi l’Ffo (Fondo di finanziamento ordinario, principale fonte di sostentamento delle università pubbliche).
Il Pnrr e il Prin, che riguarda singoli progetti specifici, sono fonte importantissima per gli atenei, ma per loro stessa natura sono finanziamenti a esaurimento, straordinari. Quindi non stabili, ordinari e duraturi. Eppure, una buona fetta del personale post-doc presente in questo momento in università è entrata grazie a questi fondi.
È qui che sta «la radice dei problemi strutturali del sistema della ricerca in Italia», scrivono da Adi. Strutturali perché il ricorso a fonti di finanziamento provvisorie per assumere personale di ricerca (che resta numericamente in deficit rispetto alla media europea) è sistematico e serve a sopperire alle carenze storiche del finanziamento ministeriale.
E così la ricerca accademica resta continuamente minacciata dalla precarietà e dall’instabilità. Non si permette agli atenei di fare programmazione a lungo termine, né di stabilizzare molte lavoratrici e lavoratori.
Ad esempio, l’accesso ai fondi Pnrr ha permesso alle università di aumentare considerevolmente l’organico di ricerca (e non solo), ma adesso i fondi sono in scadenza e, se non ci sarà un intervento economico da parte del governo, si rischia di acuire lo stato di crisi degli atenei. In particolare al sud, dove c’era già un tessuto accademico storicamente più debole.
La geografia dei finanziamenti e il rischio di un “effetto boomerang”
La geografia dei finanziamenti che l’analisi Adi prova a ricostruire mostra alcuni squilibri: al nord-ovest quasi il 30 per cento delle posizioni è finanziato da fondi ordinari, al centro e al nord-est si scende al 23 e 24 per cento. Mentre al sud e nelle isole questi fondi coprono solo il 18,3 per cento delle posizioni. Qui, la ricerca è finanziata soprattutto dal Pnrr (che da principio serviva a colmare le disuguaglianze), con una percentuale del 35 per cento, e i progetti Prin e Pon, 38,3 per cento.
Il rafforzamento degli atenei «è solo un’apparenza», testimonia una ricercatrice del CUIR (Coordinamento universitario In rivolta) dell’università di Palermo. Perché una volta che queste risorse saranno esaurite il sistema accademico, nelle condizioni attuali, non sarà in grado di rinnovare molte delle assunzioni fatte. Con un impatto più forte lì dove tali fondi sono stati maggiormente impiegati. «Si rischiano effetti disastrosi. Siamo alla vigilia di tutto questo: il prossimo anno avremo una contrazione del personale enorme», continua la ricercatrice.
Per evitare l’“effetto boomerang”, come lo definisce Adi, bisognerebbe aumentare le risorse dell’Ffo, anziché continuare a tagliarle, e distribuirle in modo più equo tra gli atenei, così che questi possano muoversi in direzione di una stabilizzazione delle figure precarie.
FFO 2025 IN AUMENTO, MA NON BASTA
Invece, il timore è che si prosegua, in modo più o meno dichiarato, sulla linea del definanziamento. Dopo il taglio di quasi 500 milioni, all’Ffo nel 2024 (9 miliardi), il ministero dell’Università e la ricerca ha annunciato fin da inizio anno un aumento (risolutivo?) per l’Ffo 2025 (secondo la bozza di decreto, 9.367,7 milioni). Sulla manovra, al momento il parere del Cun (Consiglio nazionale universitario) è complessivamente favorevole, ma con alcune perplessità.
Le risorse «restano ancora inferiori alla media europea, e non garantiscono la copertura delle esigenze economico-finanziarie del sistema universitario», si legge nella nota. E rispetto ai piani straordinari di reclutamento e di attività di ricerca, si sottolinea «la necessità di prevedere in prospettiva un ulteriore potenziamento del personale strutturato», «di reperire risorse aggiuntive» finalizzate al reclutamento, anche alla luce «della presenza di un numero crescente di giovani ricercatori in situazioni di precariato, con contratti a termine».
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