Da oltre un anno la questione dei rapporti tra accademia e Israele è entrata nell’agenda delle università italiane. Sit-in, mozioni, lettere pubbliche e interrogazioni hanno scosso la routine di diversi atenei. Le richieste degli studenti sono rimaste le stesse: interrompere ogni collaborazione con le università e gli enti israeliani coinvolti nella violazione del diritto internazionale. Le risposte, invece, sono arrivate in ordine sparso: da chi ha reciso gli accordi a chi ha preferito parole caute e gesti simbolici.

L’ultimo atto è arrivato il primo luglio dall’università di Padova, dove il Senato accademico ha approvato all’unanimità una mozione che impegna l’ateneo a non stipulare nuovi accordi –  né a rinnovare quelli in essere – con le istituzioni israeliane. In particolare l’università ha denunciato le violazioni del diritto internazionale certificate dall’Onu e dalla Corte penale internazionale e ha chiesto l’accesso umanitario a Gaza. Gli accordi in vigore tuttavia resteranno validi fino alla loro naturale scadenza.

«Un passo avanti, certo. Ma troppo poco, troppo tardi», spiega Emma Ruzzon, presidente dell’UDU di Padova. «Nel contesto di oggi, dire che non si faranno nuovi accordi non è sufficiente. Sarebbe stato rivoluzionario un anno fa. Ora serve molto di più: serve recidere gli accordi attivi, finché durerà il genocidio».

La voce degli studenti, che da due anni pressano l’ateneo con sit-in, lettere pubbliche e mozioni, non si è mai spenta. «C'è una parte dell’accademia che ha paura di perdere fondi, una che crede davvero che i ponti accademici siano sacri, e una minoranza che nega ancora oggi l’esistenza di un genocidio. In mezzo a questo, abbiamo dovuto trovare uno spazio per far passare un principio: che la libertà accademica non può essere usata per coprire l’inazione», continua Ruzzon.

La rettrice Daniela Mapelli ha voluto precisare che «i progetti accademici in corso con ricercatori israeliani restano validi, perché si tratta di attività esclusivamente didattiche e scientifiche», ribadendo che l’ateneo «non si presta a strumentalizzazioni politiche, ma prende posizione laddove sono in gioco diritti umani fondamentali».

Eppure gli studenti non si dicono soddisfatti: «Non possiamo aspettare il 2026 o il 2027 per vedere scadere gli accordi. Serve un atto di rottura, non solo una dichiarazione d’intenti».

Parole, non scelte

A Roma la situazione è bloccata. Daniela Palamides, rappresentante degli studenti nel Senato accademico della Sapienza, racconta che l’unico strumento a disposizione per portare la questione dentro il Senato è stata un’interrogazione. «Dopo mesi di pressioni, siamo riusciti a ottenere un documento che condanna genericamente l’escalation militare. Ma non si nomina mai il genocidio, e soprattutto non si parla di interrompere gli accordi».

Nel frattempo, nel maggio 2025, l’organizzazione Cambiare Rotta ha denunciato un nuovo accordo tra il dipartimento di Fisica della Sapienza e la Hebrew University, l’università di Gerusalemme, legato a tecnologie di ottica di precisione con possibili applicazioni militari. Il finanziamento è arrivato tramite il bando Maeci, proprio uno degli strumenti più contestati dal movimento universitario. «La nostra richiesta è molto semplice: riconoscere il genocidio in atto e sospendere ogni collaborazione con gli atenei coinvolti», ribadisce Palamides. Ma la governance tace. La frustrazione tra gli studenti impegnati in questa battaglia cresce: «Non vogliamo più solo parole, ma un'azione concreta. I nostri cortei e le manifestazioni hanno mostrato che c'è una parte viva dell’università che vuole prendere posizione. Ma serve una risposta politica, non solo simbolica».

Un anno di mobilitazione

Dalla primavera 2024 alla metà del 2025, l’onda delle proteste ha attraversato tutti i principali atenei italiani: tende alla Sapienza e a Bologna, mozioni a Torino, Palermo e Milano, flash mob e lettere aperte. Alcuni atenei hanno scelto di agire: Palermo ha reciso tutti gli accordi con Israele e attivato borse per studenti palestinesi. La Statale di Milano ha sospeso le collaborazioni con Ariel University e Reichman. Cagliari, Torino e Pisa hanno congelato la partecipazione al bando Maeci. Ma la maggior parte degli atenei si è limitata a dichiarazioni di principio.

A Trento, gli studenti hanno denunciato i legami tra il rettore e la fondazione Med-Or, promossa da Leonardo spa, accusata di collaborare con l’industria militare israeliana. A Bari, il rettore si è dimesso dal comitato scientifico della stessa fondazione. A Bologna e Firenze, i collettivi hanno occupato aule, interrotto le sedute degli organi e convocato assemblee pubbliche, spesso represse dalla polizia. Ma ovunque, il filo rosso delle proteste è la richiesta di uno stop netto a ogni collaborazione accademica con chi sostiene, direttamente o indirettamente, l’occupazione e le operazioni militari a Gaza.

Il confronto con la questione Ucraina

Molte delle proteste si sono concentrate attorno al Bando Maeci, il programma di cooperazione scientifica tra Italia e Israele da 1,1 milioni di euro. Già nel 2024 numerosi docenti e ricercatori avevano chiesto formalmente al ministero di sospenderlo. Nel 2025 oltre 1.300 lavoratrici e lavoratori universitari hanno firmato una nuova lettera per chiedere lo stop, denunciando la complicità delle istituzioni accademiche con l’industria militare israeliana.

«Nel 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il ministero aveva dato subito indicazioni su come comportarsi con le università russe» ricorda Ruzzon. «Avevano chiesto di monitorare gli accordi, di sospendere la cooperazione scientifica. Oggi, nulla del genere è stato fatto. Le università si muovono da sole, a tentoni, con paura di sembrare radicali».

La differenza di trattamento è stata denunciata anche a livello europeo. Più di 400 accademici hanno firmato una lettera all’Unione europea per chiedere l’esclusione delle università israeliane dai fondi Horizon Europe, citando il rischio di complicità nei crimini di guerra. La Commissione, tuttavia, ha evitato ogni presa di posizione esplicita.

«Non ci fermeremo, a settembre rilanceremo» promette Ruzzon. «Questa non può essere una parentesi estiva. Padova non ha chiuso il discorso: lo ha appena aperto. Ora tocca alle altre università dimostrare che non basta una mozione per potersi dire dalla parte giusta della storia».

Per Palamides serve ancora più coraggio. Ritiene che gli atenei abbiano il dovere di affrontare la questione e di non rinchiudersi nel silenzio istituzionale: «Se non lo fa l’università, chi dovrebbe farlo?».

In mezzo al silenzio delle istituzioni, a tenere viva la discussione restano gli studenti. Dentro e fuori i senati accademici, tra i banchi delle aule, nei presidi e attraverso i documenti. Non è una mobilitazione compatta, né unitaria. Ma è una voce che continua a farsi sentire. E che a settembre tornerà a imporre il dibattito in tutta Italia.

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