Era il 28 novembre del 2014, con alcuni colleghi (tra cui Donato Greco, membro del nuovo Cts) discutevamo di politiche vaccinali a un corso organizzato dalla Scuola superiore di epidemiologia del centro Ettore Majorana nella splendida cornice di Erice.

Quel giorno il Corriere della Sera – in prima pagina – titolava «Vaccini, morti sospette e caos».

Il caso Fluad

La notizia faceva riferimento alla decisione di Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, di sospendere l’uso di due lotti di vaccino anti-influenzale Fluad a seguito di tre decessi riportati dal Sistema di farmacovigilanza e sospettati di essere correlati alla vaccinazione.

Due giorni dopo Aifa e Iss rilasciarono i risultati delle prime analisi che confermavano il profilo di sicurezza dei lotti. Sei giorni dopo il Comitato di valutazione dei rischi per la farmacovigilanza (Pharmacovigilance Risk Assessment Committee – Prac) dell’Ema comunicava che non sussistevano evidenze scientifiche di associazione tra le morti e la somministrazione dei vaccini.

Meno di un mese dopo sempre Aifa e Iss comunicarono che i risultati delle ultime analisi erano conformi ai parametri attesi e i lotti in questione vennero re-introdotti.

Durante queste settimane si moltiplicarono sulla stampa le segnalazioni di presunte morti sospette a seguito della somministrazione del vaccino e i medici di famiglia denunciarono un immediato e brusco arresto (meno 80 per cento) della campagna di vaccinazione anti-influenzale in corso.

Assieme ad alcuni colleghi riflettemmo sull’episodio e sulle sue possibili ripercussioni sulla salute pubblica sulla rivista British Medical Journal stimolando il dibattito nella comunità scientifica internazionale sulla necessità di ripensare ai modelli di azione e comunicazione dei sistemi di farmacovigilanza per la prevenzione e il controllo delle «epidemie di panico».

Le conseguenze

Come noi avevamo previsto, quell’anno in Italia la copertura della vaccinazione anti-influenzale per le persone anziane (prevista dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale del ministero e ricompresa nei Lea, i Livelli essenziali di assistenza) diminuì di ben 12 per cento, con grave carico di malattia e rilevanti impatti sociali ed economici.

Gli effetti negativi di quello che definimmo «il caso Fluad» ci hanno accompagnato sino a oggi, congiuntamente a tutto quanto ha in questi anni minato la fiducia nei vaccini quale presidio fondamentale di tutela della salute pubblica.

La copertura vaccinale per l’anti-influenzale non ha più raggiunto i tassi pre-Fluad (la copertura più alta in Italia, quasi il 70 per cento della popolazione anziana, si ebbe nella stagione 2005-2006 ai tempi della preoccupazione per l’emergenza dell’influenza aviaria).

La storia si ripete

Oggi la storia si ripete su più larga scala, in un contesto di emergenza pandemica e di profonda crisi sociale in cui l’unica via di uscita sappiamo essere il raggiungimento di un’adeguata copertura vaccinale nella popolazione generale.

Proprio ai tempi del caso Fluad, nel 2014 Bruce Gellin, allora direttore del programma Vaccini del governo federale americano, diceva: «Parlare di vaccini, non vuol dire parlare di vaccinazioni».

In effetti, avere oggi a disposizione quattro vaccini approvati dall’Ema contro il Covid-19, pur straordinario traguardo della scienza, non ci garantisce che la tanto ambita copertura vaccinale necessaria per l’immunità di gregge verrà raggiunta presto.

«Parlare di vaccinazione», significa due cose: da un lato garantire l’offerta (supply) di vaccini attraverso la loro disponibilità e l’organizzazione efficiente di programmi vaccinali, dall’altro, garantire la domanda (demand) di vaccini, ossia fare sì che le persone vogliano vaccinarsi.

Questo è uno degli obiettivi principali della nostra disciplina, la sanità pubblica: fare sì che le persone aderiscano in maniera consapevole e proattiva a comportamenti salutari, nella fattispecie alla prevenzione vaccinale.

Il ritiro temporaneo del vaccino AstraZeneca in molti paesi europei sappiamo avrà un impatto fortemente negativo sulla domanda di vaccini, fenomeno che allungherà e complicherà non poco la strada per uscire dal tunnel.

Il ritiro è stato predisposto «per precauzione» ma l’effetto dell’interruzione della campagna vaccinale avrà un’onda lunga nonostante il nesso di causalità tra la somministrazione del vaccino e gli eventi tromboembolici sia stato escluso dalle autorità sanitarie.

I determinanti della domanda di vaccini sono complessi e articolati e devono essere forgiati attraverso una corretta educazione e comunicazione sanitaria; il timore di una presunta pericolosità dei vaccini, se si insinua tra la gente, è difficile da contrastare, da estirpare.

La storia recente delle politiche vaccinali ce lo dimostra: è successo nel nostro paese con il caso Fluad, è successo in Inghilterra negli anni duemila con il caso Wakefield che ha avuto un impatto globale sull’uptake della vaccinazione contro il morbillo, allontanando in Europa l’obiettivo di eliminazione di questa pericolosa patologia, è successo negli anni Novanta in Francia per un sospetto legame, poi escluso, tra il vaccino contro l’epatite B e la sclerosi multipla, è successo più recentemente in Danimarca quando notizie, mai confermate, di presunti eventi avversi hanno drasticamente ridotto la copertura della vaccinazione anti-HPV nelle adolescenti.

Come limitare i danni

Oggi la storia si ripete in un drammatico momento emergenziale ed è giusto chiedersi come possiamo limitare i danni.

La comunicazione è componente fondamentale dell’azione della sanità pubblica. Non critichiamo il principio di precauzione, cardine dell’agire medico, ma ci chiediamo come una cattiva gestione della comunicazione abbia potuto influire sulla decisione sia di applicarlo prima, sia di interpretarlo poi.

Secondo anche quanto dichiarato dalla Commissione europea nel 2000, l’attuazione del principio di precauzione comprende oltre alla valutazione e gestione del rischio, anche la sua comunicazione.

Comunicazione e dati

Per limitare i danni la comunicazione dovrebbe avere alcune caratteristiche: deve essere il più possibile istituzionale e non affidata a singole personalità, e come tale unica e autorevole, deve essere trasparente e deve essere basata sui dati.

L’applicazione di questi tre principi credo aiuterebbe molto a mitigare il disorientamento di cui le persone sono preda in questo periodo e che così negativamente rischia di nuocere sul controllo stesso dell’epidemia.

Dobbiamo forse, come ha recentemente suggerito in un intervento pubblico il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro al diciottesimo convegno nazionale di diritto sanitario, iniziare a ipotizzare vere e proprie forme di regolazione della comunicazione durante le emergenze sanitarie. Oggi, in un contesto provato da un anno di incertezze: incertezze sull’origine del virus, incertezze sulla fisiopatologia dell’infezione, incertezze sull’efficacia delle terapie, incertezze sull’impatto delle misure di contenimento, incertezze sulla disponibilità di vaccini, incertezze sul futuro, ci auguriamo che il pronunciamento dell’Ema possa trasmettere un messaggio di certezza e come tale essere efficacemente comunicato affinché la storia di «Vaccini, morti sospette e caos» non si ripeta.

 

© Riproduzione riservata