La trasformazione dell’uva in vino in Italia ha una storia millenaria. Ha una propria tradizione e come ogni tradizione i propri mostri sacri, i propri adepti, le proprie abitudini ben oliate. Come si fa, allora, in un paese come questo, a proporre un modo di scegliere, commerciare, consumare e godere del vino che sia nuovo, che sappia inserirsi ed esprimere la contemporaneità senza rinnegarne la storia? 

C’è una nuova generazione di vignaioli di cui si sta molto parlando. Descritti alla stregua di artisti romantici che si riconnettono con la terra. Forse si parla meno dei vinai: uomini e donne che decidono di aprire enoteche con un’idea innovativa di ciò che significa vendere vino, in contrasto e contemporaneamente in continuità con quella delle generazioni precedenti. 

Vino, musica e arte

«Si condividono il pane e il vino, è così nella storia biblica ed è così anche nella vita. Il vino accompagna una certa forma di cultura comunitaria. È un fattore di aggregazione che mi è sempre piaciuto, come le mie due altre passioni, la musica e l’arte», racconta Thomas Ferembach, vinaio anglofrancese e fondatore dell’Enoteca La Botte, un punto di riferimento nel quartiere di NoLo, nord est milanese. La Botte ha un pavimento piastrellato a scacchiera che le dà carattere, una parete tappezzata di bottiglie, un bancone di legno costruito dallo stesso Ferembach, che ha rinnovato gli spazi seguendo le necessità e lo spirito che l’enoteca andava indicando nei due anni che ci separano dalla sua apertura. Adiacente all’enoteca sorge Spazio Bidet, una vetrina che si fa galleria d’arte, ospitando ogni mese un’opera d’arte contemporanea diversa. «Bidet perché è necessario, come vorrei fosse l’arte».

Alla Botte si ascoltano selezioni di vinili, dj set, si fanno jam session, si incontrano persone simili e diverse da sé, si stringono amicizie, si torna a casa meno spenti da giornate che talvolta la città fa sentire come troppo lunghe. 

«L’enoteca che ho rilevato vendeva principalmente vino sfuso, aveva già una sua clientela e un suo modo di concepire il vino»,  continua Ferembach. «Lo sfuso è una pratica che ho voluto conservare perché trovo che rifletta un approccio politico al consumo: mi piace che abbia un prezzo popolare, che vengano i giovani a prenderlo per le loro feste, gli anziani per fare scorta di vino da tavola per tutto il mese. Ma ho ridotto di molto le quantità, per una questione di visione. Voglio dare spazio alla nuova ondata di vignaioli che fanno vino partendo dalla terra, rispettandone le inclinazioni e le possibilità naturali. Appartengo a una generazione che sente l’urgenza di cambiare l’approccio ai consumi, è scettica rispetto al modello della grande distribuzione e dell’industria alimentare e si rende conto che un buon prodotto è un prodotto che recupera pratiche antiche, non avvelena la terra e il lavoro, un prodotto etico che riflette un atteggiamento consapevole e rispettoso, curandosi di avere un impatto minimo».

D’altronde l’espressione “vino naturale” serve solo a capirsi, il vino è un prodotto dell’ingegno e del lavoro umani, creato dall’uomo per l’uomo. Naturale è una convezione per dire che questo prodotto deve essere sano, sostenibile, deve rispettare la natura e chi la lavora. 

Approccio etico

Un approccio etico e attento alla qualità muove anche le intenzioni di Palinurobar. 

Siamo in via Paisiello, zona Città studi, sempre nord-est di Milano. I quattro fondatori, Antonio Crescente, Davide Coppo, Fabrizio Vatieri e Nicola Nunziata, vengono da mondi diversi, dall’enologia alle arti visive fino all’editoria. Perché è questa una delle caratteristiche della nuova generazione di osti: un approccio ibrido e ampio all’idea di enoteca, un luogo che accolga arte, design, buona musica, cibo di qualità e dalla filiera pulita. Che non si limiti ad essere un posto in cui bere, ma che offra invece esperienze avvolgenti, potremmo dire intellettuali. 

In quest’enoteca che ha conservato gli arredi del bar anni Settanta/Ottanta che l’ha preceduta, con un maestoso bancone in legno a dare la struttura, cercando un dialogo con una certa estetica da vecchia Milano, si tengono presentazioni di libri e dischi, selezioni musicali di ospiti sempre diversi, accoppiamenti intelligenti come un dj-set performance di acid house e vini ad alto tasso di acidità. E il vino diventa così un dispositivo per altre culture, come spiega Davide Coppo, uno dei fondatori che nel 2021 si è lanciato in quest’esperienza in un momento di slancio e incoscienza pandemica che si sono rivelate vincenti. 

«Il nostro quartiere ci piace», racconta Coppo. «L’idea di aprire un’enoteca nasce anche dalla voglia di fare comunità dopo un periodo in cui ci era stato precluso, dando vita a uno spazio dove potessero nascere legami. Le persone si sentono a proprio agio nel venire da sole, sedersi al bancone, ordinare un buon calice. Dopo pochi minuti avranno conosciuto il loro vicino, saranno presi da una conversazione che non si sarebbero aspettati». 

Comunità impreviste, etichette che provengono da luoghi imprevisti (non solo Italia e Francia ma Austria, Germania, Repubblica Ceca), estetica imprevista. Palinurobar come Enoteca La Botte stanno nel proprio quartiere in maniera armonica, senza seguire le traiettorie standardizzate e per questo noiose – oltre che socialmente problematiche – della gentrificazione. Sono esperienze di giovani artisti, imprenditori, giornalisti, enologi, che hanno scelto il vino come dispositivo culturale spazioso.

Un modo per abitare la contemporaneità in maniera politica, per la scelta del naturale, e insieme colta, per via del dialogo con le arti. Non più vecchie vinerie, perché l’attenzione per il prodotto e la sua filiera è diversa, ma ancora vecchie vinerie, perché la ricerca di una convivialità che sia fertile, calda, vitale, muove ancora chi entra ed esce le loro porte, chi rimane in piedi nel dehors a sorseggiare un bicchiere, chi viene a comprare una bottiglia per accompagnare una cena fra amici o chi infine viene per imparare qualcosa. 

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