Dietro la saracinesca di un’ex officina in zona Bovisa, nascosta tra i cantieri e i binari della ferrovia, cado nella tana delle meraviglie di Venerus, cantautore milanese di Magica Musica, album d’esordio del 2021, e Il segreto (2023), che ha tinto di soul neo-hippy e sognante la stagione dell’indie nostrano. È il suo studio, ma anche una specie di autoritratto spaziale, il rifugio in cui questo bagatto dell’invenzione atmosferica di nome Andrea – Venerus è il suo vero cognome – classe 1992, nato a San Siro, si protegge dalle “fregature dalle società”, cercando ispirazione nella musica inattuale, per escogitare, col suo gruppo di amici, armonie di liberazione collettiva.

Parliamo sul suo divano, circondati da cimeli anni Settanta, immaginette induiste e adesivi dei primi Pooh, strumentazione, svariati giradischi e cascate di piante che ci ascoltano dal soppalco, su cui, dice, al mattino è bellissimo mettersi a leggere.

Cominciamo dal nuovo singolo, Ti penso, primo assaggio dell’album in uscita quest’anno, con cui Venerus conferma di fare a modo suo, ma provando, stavolta, a sussurrare le sue scoperte a più gente possibile. Partendo da una specie di spoliazione: «Adesso mi fa sentire bene la semplicità, come una riduzione culinaria del sapore che voglio creare. Non sento più il bisogno di inventarmi un’immagine ogni volta diversa: c’è una sorta di energia sottile a cui sento di poter attingere. È come quando il cielo si prepara alla tempesta, ma in senso buono. Il prossimo tour sarà la cosa più bella che ho fatto finora».

Come stai vivendo questo ritorno?

Pubblicare la prima canzone di un nuovo progetto è sempre strano. Quando lavori tanto a qualcosa, immergendoti, nascono dubbi. Con l’esperienza poi sviluppi distacco: non sono più il ragazzino che si gasa perché la canzone l’ha scritta lui. Sentire Ti penso in radio la prima volta ha risolto le domande sul senso che ha nel mio percorso. È un pezzo lineare, r&b anni duemila: rimane in testa, ma ha passaggi segreti. Sono felice se le persone riconoscono che fa parte di qualcosa di più ampio.

Com’è nata?

È un pezzo pop, ma non scritto a tavolino. Avrebbe dovuto essere solo una specie di freestyle: ci siamo accorti che c’era di più. Spuntare sempre in un luogo diverso è la cosa importante: quando metto la testa fuori devo essere dove non sono ancora stato. Il disco nuovo credo saprà entrare in modo meno timido nella vita degli altri: mantenendo il mio mondo, voglio provare a giocare con alcune delle regole con cui giocano tutti.

C’è stato anche il passaggio a una major.

L’etichetta è sempre Asian Fake, ma siamo distribuiti da Emi, ovvero Universal. Mi sento pronto per arrivare a più persone: inizia una stagione in cui mi confronterò con situazioni nuove. La grossa esposizione radio, i festival mainstream, gli eventi. Fare il concerto di due ore, intimo, col mio pubblico, è la cosa più bella, ma è la mia comfort zone. Suonare in piazza dieci minuti, davanti a migliaia di persone che non mi conoscono, mi fa sentire di nuovo un po’ outsider.

In passato, quando?

Sono cresciuto a San Siro: contesto non difficile, ma decentrato. Specie negli anni Novanta. Non la Milano che ci si immagina: grandi spazi e poca contaminazione. Ero introverso, l’unico senza motorino. A cinque anni ascoltavo Bob Dylan, i miei compagni non sapevano chi fosse. In famiglia tutti ingegneri, professori, niente input creativi. Nella musica ho trovato un’appartenenza: è stata la compagnia che mi è mancata altrove. Per questo continuo a proteggerla da calcoli e mode.

Hai vissuto anche a Londra, dopo il liceo, e a Roma.

Milano mi ha dato un imprinting neutro. Sentivo di poter far cose: in questo è diversa rispetto alla provincia. Non mi ha blindato la mente, ma non mi ha trasmesso un sapore di casa. Se cresci in un appartamento al nono piano, occupi uno spazio che non esiste. Tre metri sopra vivono altre persone, tre metri sotto altre ancora. Non è come avere un pezzo di terra, anche minuscolo, in cui tornare. Quando sento parlare i miei amici o la mia ragazza, cresciuti altrove, hanno abitudini, odori, usanze: forse la missione della mia anima è quella di trovare, un giorno, un luogo da chiamare casa.

Parli spesso della libertà dell’anacronismo, dell’andare controcorrente.

È la risposta all’isolamento dell’adolescenza. Ora però non sono più solo: ci sono Filippo Cimatti, produttore dei brani, e Andrea Cleopatria, autore di copertine, video, scenografie, con cui adesso ci confrontarci anche sulla scrittura. Portiamo in giro la nostra bandiera, una forma di diversità. Anche se, in un certo senso, non mi sono mai sentito meno strano di ora. È una missione: siamo al servizio di qualcosa che va al di là della carriera. Onoriamo il potere di liberazione della musica: qualcosa di più grande delle nostre individualità.

L’obiettivo?

Il valore, forse anche politico, è radicato in una sensazione di apertura e libertà: per poter stare bene, non aderire agli standard esterni. Vorrei trasmettere alle persone un po’ di sollievo dalla vita per come la viviamo di solito. Perché la società, per me, è sempre stata un po’ una fregatura.

In che senso?

Ti dà gli strumenti per sopravvivere, ma ti imprigiona. È un’efficacia che porta anche tanta sofferenza. Immagino sempre di essere un cavallo: nasci in una stalla e la società ti dà gli strumenti per dire che la realtà è la stalla. Ti dà da mangiare, ti fa fare i bisogni: io voglio ricordare alle persone che non c’è solo la stalla. Anche perché tutti, a un certo punto, si muore. La società ci insegna solo a rimuovere il pensiero della fine.

Il momento in cui ne hai preso coscienza?

Una specie di depressione, a cinque-sei anni. Ho iniziato a sentire il peso del tempo che non passavo coi miei: andavano in ufficio al mattino e tornavano alla sera. Ho pensato che, un giorno, non ci sarebbero stati più, quel tempo non ce lo avrebbe restituito nessuno. Poi al funerale di mio nonno: il momento in cui hanno murato la bara, con spatola e mattoni. Col pensiero della morte ho capito anche che la società ci imbroglia.

Conformismo e rimozione della morte sono legati?

Il modo di vedere la morte in Occidente è limitato: altre culture, come le orientali, accompagnano di più l’esistenza. È il passo più importante che ci attende: dedicarsi al non tangibile, alle tante forme di trascendenza, è un’educazione per arrivare, se non pronti, almeno predisposti. Voglio tenere cuore e mente aperti. M’interessa superare la sola idea del lutto, lo strappo, la paura. Ogni assenza crea malinconia, ma c’è di più. Mi piace chi, come padre Guidalberto Bormolini, si rivolge a questi aspetti con amore.

Nelle tue giornate questa tensione che forma prende?

Non ho una fede strutturata. Ma, nel caos di impegni e obiettivi, mi do delle priorità: la ricerca musicale e le persone a cui voglio bene. Il resto verrà di conseguenza. Applicare una sorta di filosofia sulla propria vita è un rituale: con l’attenzione e il cuore rimango sulle cose importanti. Lì dove, come persona, mi nutro. Il sentimento della trascendenza, il mistero che collega tutto. Voglio uscire dal meccanismo, e, nel farlo, portare fuori più gente possibile: le mie canzoni sono questo.

A San Siro torni?

Sì, i miei stanno ancora lì. È un contesto protetto rispetto al centro. Milano è vittima della messa in vendita di qualsiasi cosa: una sorta di server, una pagina web dove tutto si può comprare. A San Siro questa sensazione è più lenta. La vista dal nono piano che dà sullo stadio, da casa dei miei, è una cartolina ancora immutata.

Qua in Bovisa è il contrario.

Ogni giorno rifanno una strada, tirano giù un palazzo e ne costruiscono un altro. L’atmosfera del work in progress mi elettrizza: questi lavori in corso sono anche quelli dentro di me.

Nel futuro ti immagini qui?

Per ora ne ho ancora bisogno: ho questo studio, in cui ci ritroviamo a lavorare. Ma a un certo punto credo andrò via. Sogno di potermi svegliare in mezzo alla natura, con meno comodità ma più cose da scoprire. A Milano ci sono cresciuto: la fascinazione è in calo, il magnete sta perdendo forza. Quando compi trent’anni è come arrivare alla fine di una grande stanza, che pensavi di conoscere, dove trovi una porta che non vedevi.

Una volta aperta?

C’è un corridoio immenso. Pensavi di aver capito come vivere, e invece si spalanca tutta un’altra fase. È misterioso e ogni tanto fa un po’ paura. Inizia un tempo di domande diverse. Ci entro munito solo dei miei amici e delle mie canzoni, senza più bisogno di maschere o effetti speciali.

Venerus si esibirà alla VII edizione di Polifonic in Valle d’Itria venerdì 25 luglio (alla Masseria Capece).


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