Si può certamente scrivere che un vino sappia di mango. È cosa che facciamo con frequenza specie nel descrivere un bianco caratterizzato da una certa aromaticità. Una persona indiana darebbe però per scontato che di quel frutto esistono varietà diverse tra loro, a quale ci stiamo riferendo? Un po’ come la nostra mela, sempre declinata almeno nella versione verde o gialla quando usata come descrittore.

Il punto sollevato dallo storico critico del Washington Post Dave McIntyre è destinato a lasciare il segno, almeno nel modo in cui guardiamo alle parole che usiamo tutti i giorni per parlare di vino. Dobbiamo cambiarle, si chiede, e usare un linguaggio nuovo, diverso, più inclusivo? Alcuni sostengono di sì, specie alla luce di un mondo sempre più globalizzato le cui informazioni vengono fruite allo stesso modo da una persona italiana e cinese, francese e brasiliana.

Quando parliamo di vino e della sua storia ci riferiamo per forza di cose alla cultura occidentale. Sintetizzando in maniera estrema il percorso del vino è iniziato nel Caucaso per poi diffondersi in Mesopotamia seguendo i percorsi delle civiltà che hanno abitato queste ampie regioni, spostandosi soprattutto verso ovest. Prima i greci con l’area del Mediterraneo e poi i romani, la popolazione che ha contribuito alla diffusione della vitis vinifera in quella che oggi chiamiamo Europa. E ancora: secoli più tardi sono stati proprio i missionari e conquistatori europei a introdurre il vino tanto nelle Americhe quanto in Sudafrica, in Australia, in Nuova Zelanda. Il vino di oggi, come lo conosciamo, è quindi indissolubilmente legato alla storia del colonialismo europeo, una cosa del tutto naturale.

Al tempo stesso, e questo è aspetto oggetto di un dibattito sempre più ampio, nel vino ogni parola riflette l’esperienza europea. Che si tratti dei termini usati dai sommelier di tutto il mondo o di una qualsiasi brochure aziendale, esiste un background culturale che tende a guardare a quella che è la nostra esperienza sia in termini di valori che di applicazioni quotidiane, basti pensare agli abbinamenti gastronomici spesso indicati proprio sulle etichette dei vini o sui siti web di tantissime cantine.ù

Brasati, arrosti, salumi e formaggi rappresentano l’architrave dei pairing di gran parte dei rossi che vengono prodotti in Europa, piatti perlopiù sconosciuti a centinaia di milioni di persone i cui riferimenti si agganciano a contesti gastronomici molto diversi. Parlare a tutte queste diverse sensibilità la sfida del vino di oggi. Non solo, anche l’uso di “vecchio mondo” e “nuovo mondo” continua a far discutere tanto che è forse arrivato il momento di archiviare questi riferimenti geografici, almeno nel vino. Sono termini che si riferiscono rispettivamente alle regioni produttrici tradizionali dell’Europa e ai paesi vinicoli una volta considerati emergenti come appunto Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e altri. Espressioni che da una parte hanno un chiaro riferimento geografico e che dall’altra sono state per decenni utili a identificare stili molto spesso diversi tra loro. Con le dovute e tante eccezioni, infatti, i vini del “vecchio mondo” tendevano ad avere un corpo meno pronunciato, maggior acidità, minor alcol e in generale un profilo fruttato meno intenso oltre che una maggiore mineralità. Categorie che oggi, alla luce del cambiamento climatico e soprattutto di un mondo produttivo straordinariamente più sfaccettato, hanno sempre meno senso. Inoltre, aspetto non secondario, sono termini che rafforzano l’idea che l’Europa sia il centro del mondo del vino e che i paesi del “nuovo mondo” non siano altro che “follower” anche in termini qualitativi. Non è così.

Non a caso la più famosa e influente wine writer del mondo, la britannica Jancis Robinson, ha smesso di usare questi riferimenti da anni preferendo descrivere i vini concentrandosi sulla loro regione di provenienza, sul loro specifico terroir e di conseguenza sulle loro caratteristiche organolettiche, sempre uniche.

© Riproduzione riservata