«Non andate a Genova, sarà un massacro. Un inferno». Siamo nel marzo 2001, al G8 di Genova mancano quattro mesi. Eppure un funzionario della Digos di Napoli è in grado di prevedere cosa accadrà nella città ligure in quei giorni neri di luglio. La sua capacità di prevedere un futuro già scritto, programmato, il funzionario la affida ad un professore di educazione fisica di Eboli. È a Napoli nei giorni caldi, il professore, alla ricerca di sua figlia Maria (nome obbligatoriamente di fantasia, vista la materia).

Anche lei, come decine e decine di altri ragazzi, è stata picchiata, insultata, rinchiusa abusivamente in una caserma e umiliata. La storia non è campata in aria, perché il professore la mette nero su bianco in un esposto che il 20 marzo 2001 invierà al capo dello stato, al presidente del Consiglio, a prefetto, questore e comandante dei Carabinieri di Napoli. L’esposto finirà anche nel corposo fascicolo dell’indagine sulle violenze e i comportamenti della polizia, che la procura di Napoli aprirà due anni dopo.

Sapere in anticipo

Tutto raccontato in anticipo. La macelleria messicana, gli assalti dei blindati ai cortei pacifici, i black-bloc lasciati indisturbati a distruggere, provocare, diventare padroni del territorio. Nessuno, 120 giorni prima di Genova, avrebbe potuto immaginare tutto questo, e il peggio che poi gli italiani avrebbero visto in migliaia di filmati.

L’uso indiscriminato di lacrimogeni sparati sempre ad altezza d’uomo, i pestaggi a manifestanti indifesi, le foto con i volti tumefatti di anziani con la bandiera del loro sindacato, i piercing strappati a Bolzaneto, dove uomini in divisa minacciavano i prigionieri cantando canzoni fasciste e inneggiando al Cile di Pinochet.

La morte del ragazzo Carlo Giuliani. Insomma, nessuno avrebbe mai potuto solo lontanamente ipotizzare che in quel luglio ci sarebbe stata quella che per Amnesty International sarebbe stata la «la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale».

Zona rossa

Ma torniamo a Napoli. È marzo e sotto il Vesuvio si svolge un vertice Ocse sul digital divide. Il vento forte che soffiava a Seattle due anni prima, ora infiamma le teste dei ragazzi no-global e dei loro leader. Se il Nord è presidiato da Luca Casarini e Vittorio Agnoletto, due personaggi diversi per carattere e formazione, il caldissimo fronte del Sud è affidato a Francesco Caruso, un sociologo dall’eloquio fluviale e coinvolgente.

È la prima grande, imprevista, manifestazione No global. In città arrivano più di 30mila persone. Il non aver saputo, o addirittura voluto, prevedere un tale afflusso è una delle prime grandi analogie con quanto quattro mesi dopo accadrà a Genova. Il meccanismo di “contenimento” dei manifestanti salta quasi subito. Anche a Napoli, e per la prima volta, si sperimenta l’uso della “zona rossa”, quel limite invalicabile che andava difeso a tutti i costi.

L’area che va da via Marina al Maschio Angiono, fino a piazza Municipio, è sbarrata da transenne mobili e da reparti di polizia e carabinieri. I manifestanti non hanno vie di fuga, il che significa che non hanno alternative: devono scontrarsi e basta. Militanti dei centri sociali, comprese le punte più estreme, pezzi di corteo pacifico (di movimenti cattolici, Arci e sindacato, e di qualche partito di sinistra, la Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti, in primo luogo), tutti, indistintamente, sono chiusi in quella che verrà definita una vera e propria “tonnara”.

Sono quattro giorni di fuoco. All’inizio piccole scaramucce tra pezzi del “movimento” e forze dell’ordine, in attesa della giornata nera, sabato 17 marzo. In piazza, come dicevamo, ci sono 30mila persone. Una presenza enorme.

Soprattutto non prevista da nessun rapporto dell’intelligence, né da qualche velina della polizia. Stesso, identico scenario di Genova, quando dopo anni, lo stesso capo della Polizia, Gianni De Gennaro, e il questore Arnaldo La Barbera, all’epoca dei fatti di Genova capo dell’antiterrorismo, ammetteranno che l’afflusso di centinaia di migliaia di persona nei giorni del G8 non era stato previsto, e che la previsione sulle presenze era stata calcolata molto al ribasso.

Jatevenne

«No pasaran. Jatevenne». Con questo striscione si apre la grande manifestazione del 17 marzo. I primi scontri a piazza Municipio, con i manifestanti che premono sui cordoni della polizia. Il “contenimento” (prassi normale in tutte le manifestazioni di piazza) dura poco. I reparti mobili di polizia e carabinieri caricano. Indiscriminatamente. Senza distinguere tra manifestanti violenti e quelli pacifici.

Le parole dei pubblici ministeri che due anni dopo indagheranno tra mille polemiche e attacchi politici su quei giorni neri, sono pesantissime. Descrivono un quadro di «azioni repressive sproporzionate e ingiustificate», parlano di agenti che «quel giorno superarono in modo palese ogni regola, anche la più repressiva. Con aggressioni gratuite contro manifestanti palesemente indifesi… ragazzi con le mani alzate furono oggetto di pestaggi».

Distruggere l’utopia

Maria, nome di fantasia, è partita all’alba da Eboli. Ha 27 anni e una laurea in lingue straniere, il movimento no-global la affascina. Vuole esserci. Manifestare. È a piazza Municipio quando assiste ai primi scontri. «Cercavo di allontanarmi, ma una poliziotta mi colpì con una manganellata alla testa. Ho visto un uomo con un bambino in braccio, hanno colpito anche lui». In piazza è l’inferno. Tutte le “direttive” impartite dal questore Nicola Izzo vengono disattese. Sulla gestione della piazza «ispirata a criteri di equilibrio volti a contenere nel modo più opportuno e corretto, qualsiasi turbativa».

Sull’uso dei lacrimogeni, che «dovranno essere usati solo quale rimedio estremo, e sparati non ad altezza d’uomo ma a tiro curvo». Su come «impugnare correttamente» il manganello «tonfa» di recente adozione da parte delle forze dell’ordine. È come se in quel momento chi aveva il comando in piazza ubbidisse ad altri ordini, impartiti da chi non lo sapremo mai. Maria, come decine di altri feriti, viene portata in ospedale.

All’improvviso, di notte, un gruppo di agenti in borghese la preleva di forza dal pronto soccorso e la porta nella caserma Rainero. Una vecchia struttura della polizia trasformata in centro di detenzione per i manifestanti fermati. Lo stesso “modello” di detenzione abusiva che verrà sperimentato a Genova nella caserma di Bolzaneto. Anche Niccolò, giovane cronista di Indymedia, viene prelevato dall’ospedale Pellegrini. La sua colpa è quella di aver registrato gli scontri di piazza. Gli agenti vogliono la cassetta col girato, lui chiede che gli si faccia un verbale. Lo picchiano, lo minacciano. «Tu non hai visto niente, se ricordi è peggio per te. La cassetta non l’hai mai girata».

In caserma Maria viene umiliata. Non ha commesso alcun reato, non sa di cosa sia accusata. Viene fatta spogliare nuda. Lei piange e protesta. Una poliziotta la minaccia di farle una «perquisizione anale». È terrorizzata, soprattutto quando un poliziotto le dice di sapere tutto di lei e della sua famiglia. «Un fratello commerciante, un altro in polizia». Quando gli agenti le aprono lo zaino e scoprono una tessera di “Rifondazione comunista”, si scatenano. «Puttana», «comunista di merda».

Suo padre, il professore di Eboli autore dell’esposto, la cerca. Nessuno sa o vuole dirgli qualcosa. «Solo dopo sei ore – scriverà nella sua denuncia – ho potuto parlare con mia figlia al telefono». Eppure, altra stranezza notevole della vicenda napoletana, in quei giorni non era stato «emanato alcun ordine di servizio in merito al trasferimento di persone dal pronto soccorso degli ospedali alla Caserma Raniero».

Messo nero su bianco dal capo di Gabinetto della questura Marangoni. Napoli prova generale di Genova. Nonostante due governi (Amato per Napoli, Berlusconi per Genova) e due ministri dell’Interno (Bianco e Scajola), lo scenario fu identico. E quella sotto il Vesuvio fu solo una prova generale, perché identico era l’obiettivo: rompere, fermare, umiliare un movimento che voleva parlare con i grandi della Terra. Con in testa una grande, concretissima utopia: un altro mondo è possibile.

 

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