Pausa pranzo, quanto mi costi. Le soluzioni per chi cerca di mangiare qualcosa durante il lunch break a lavoro sono sempre di meno: le mense alle volte non sono presenti, i pasti da casa spesso non sono soddisfacenti e nemmeno praticabili e così restano i buoni pasto, che però presentano parecchi problemi di utilizzo.

A far da sfondo in tutto questo c’è l’inflazione, che erode in modo significativo gli stipendi di chi lavora sia nel pubblico che nel privato: nonostante un leggero rallentamento, come certificato anche dall’Istat, che ha rilevato a settembre un tasso di inflazione del 5,3 per cento annuo, in leggero calo rispetto al 5,4 per cento del mese precedente, il livello resta ancora sensibilmente sopra la soglia di guardia. In molte città, soprattutto al Nord, il costo della vita, tra affitti, trasporti e bollette, è praticamente insostenibile e a ciò si aggiungono anche i prezzi dei prodotti alimentari: l’iniziativa del trimestre antinflazione voluta dal governo è quasi un palliativo se si considera che, come ha rimarcato Coldiretti poche settimane fa, il prezzo dello zucchero è cresciuto del 43 per cento ad agosto 2023 rispetto a 12 mesi prima; la verdura del 20,1 per cento e la frutta del 9,4 per cento.

«I redditi fissi, come pensioni e stipendi, sono stati quelli più colpiti da questa tassa ingiusta che è l’inflazione. Il dato che impressiona, però, è che i redditi da lavoro soltanto nella prima parte di quest’anno abbiano perso quasi il 7,5 per cento del loro potere d’acquisto, che supera il 10 per cento complessivo se guardiamo agli ultimi due anni in cui c’è stata quest’inflazione galoppante. Ad essere colpito è soprattutto il carrello della spesa, dove il dato resta percentualmente di tre punti maggiore rispetto al valore medio dell’inflazione: abbiamo calcolato che il bilancio familiare viene così eroso di 1.600 euro l’anno» dice Michele Carrus, presidente nazionale di Federconsumatori.

Lavorare per mangiare

Non sono perciò sorprendenti le storie di lavoratori che protestano, perché non si vedono riconosciuto un adeguato corrispettivo economico per una pausa pranzo degna. «Con 5 euro e 20 centesimi non ci scappa più neanche un panino. Chiediamo di portare il nostro buono pasto ad un livello più dignitoso, 8 euro, non ci sembra di chiedere la luna» dice un lavoratore di un appalto ferroviario di Foligno, durante un sit-in di protesta svoltosi lo scorso 29 settembre in molte altre piazze d’Italia.

Un problema che non sembra molto diverso da quello che riguarda i lavoratori del ministero di Giustizia, che lamentano una scarsa spendibilità dei buoni pasto. «C’è un limite di legge, legato alla “Spending Review”, che prevede che i buoni pasto dei dipendenti pubblici non superino i sette euro. Dal 2012 ad oggi, però, il costo del pasto è aumentato in modo esponenziale e va considerato il danno inflitto ai gestori degli esercizi commerciali: la gara per i buoni pasto passa dalla Consip, così come per tutti gli acquisti statali, che però indice una gara al ribasso a tutto danno degli esercenti, che cominciano a non accettarli più. In mezzo ci finiscono i dipendenti, che al momento hanno una convenzione difatti non utilizzabile e dei buoni pasto che sono carta straccia» sottolinea Dino Pusceddu, segretario Fp Cgil Lombardia. Parte delle ragioni di questa protesta sono legate anche ai dati diffusi da Fipe, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi, che ha evidenziato come nel 2022 il lunch break sia arrivato a costare mediamente il 6 per cento in più in tutto il paese con l’unica eccezione di Milano, dove l’aumento ha raggiunto il 10 per cento.

Per le aziende che non dispongono della mensa, la soluzione più semplice sono i buoni pasto. Come sancito dal Decreto 7 giugno 2017, n. 122: «Tutti i lavoratori subordinati (sia full time sia part time) hanno diritto al buono pasto. Questo vale anche nel caso in cui l’orario lavorativo non preveda una pausa pranzo».

Questo significa che tutti i lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, hanno diritto a richiederlo, ma il datore di lavoro non è a sua volta obbligato a concederli, a meno che non sia specificatamente previsto dal Contratto collettivo nazionale di lavoro applicato oppure dalla contrattazione individuale o decentrata. La concessione è dunque a discrezione del datore di lavoro, che ovviamente ha dei vantaggi nel concederli: le normative attuali prevedono infatti che il buono pasto non sia da considerare come reddito da lavoro e, di conseguenza, goda di una soglia di esenzione pari a otto euro, nel caso dei buoni elettronici, e di quattro euro, per quelli cartacei.

I buoni sono inoltre deducibili al 100 per cento e hanno un’Iva al 4 per cento, senza alcuna eccezione: in questo modo è possibile recuperare interamente i costi sostenuti. Eppure, c’è chi in questo sistema ci rimette: sono gli esercizi pubblici. «Se molti negozi, bar e ristoranti decidono di non accettare i buoni pasto, è perché il valore facciale del buono che l’azienda concede al lavoratore è svalutato, perché il 15/20 per cento del valore finisce in commissioni. Il punto sta nell’asta al ribasso indetta dal datore di lavoro: se con la Consip abbiamo fissato il massimo del 5 per cento di commissioni per i buoni pasto pubblici, nel privato il problema resta. A rimetterci così sono gli esercenti, che hanno tantissimi costi da sostenere e si ritrovano a vendere beni e servizi svalutati. Per questo il buono pasto spesso non viene gradito» racconta Aldo Mario Cursano, vicepresidente Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi.

Mancato decollo

Il sentimento comune è chiaro: «Sul tema c’è un diffuso senso di scoramento: gli esercenti che si basano molto sui buoni faticano ad andare avanti. Perché dai buoni bisogna sostenere anche tutti i costi relativi e ciò che resta in tasca è davvero una miseria. Per questo molte attività falliscono, nonostante sembrino in piena attività» rimarca il presidente Fipe, che fa poi una richiesta specifica nei confronti del governo.«Bisogna salvaguardare il valore facciale del buono pasto e con esso anche il valore dell’alimentazione. C’è differenza tra il mangiare in un kebab, magari in piedi, e seduti in un bel bar: la competizione deve privilegiare chi offre una maggiore qualità, sia sotto il profilo alimentare che della salute» conclude Cursano. I lavoratori rischiano così di restare con buoni pasto che non riescono a utilizzare, come nel caso raccontato da Pusceddu relativo ai lavoratori del ministero della Giustizia. «Il nostro è un problema comune, che riguarda molti lavoratori della Pubblica amministrazione, che non si vedono accettati i buoni pasto forniti da Consip. Oggi poi, con il caro vita che c’è a Milano ma non solo, con un buono pasto da 7 euro non solo non si riesce a mangiare ma nemmeno a fare la spesa, erodendo difatti il potere d’acquisto dei lavoratori della pubblica amministrazione. Il risultato? Molti lavoratori della Pubblica amministrazione decidono di non trasferirsi a Milano o in Lombardia, perché la vita semplicemente costa troppo. In questo modo il pubblico viene penalizzato a scapito del privato» sottolinea il segretario Fp Cgil Lombardia. A fare la differenza, però, sono anche le aziende emettitrici alle quali ci si rivolge per i buoni pasto: tra le più note in Italia si segnalano Yes Ticket Srl; Pellegrini; Sodexo; Upday ed Edenred, i cui ticket vengono accettati da ben 150mila esercenti. «I buoni pasto emessi, secondo Cerved, sono stati 663 milioni nel 2022, di cui 380 milioni di Edenred, che registra una market share del 57 per cento. Sono finora buoni anche i valori del 2023: a settembre siamo arrivati a 275 milioni di buoni, in crescita rispetto allo scorso anno» sottolinea Giulio Siniscalco, direttore commerciale di Edenred Italia.

A richiederli sono praticamente tutte le aziende, dai grandi gruppi con più di mille dipendenti fino alle Pmi. «Le richieste che riceviamo sono trasversali e per molti lavoratori 8 euro di buono per 220 giorni lavorativi possono anche essere una mensilità in più nell’arco dell’anno. Gli strumenti che adoperiamo sono sia la carta che l’applicazione, dove i lavoratori possono visualizzare i buoni disponibili caricati nel cloud dal datore di lavoro». Come sottolinea Siniscalco, «l’inflazione si fa sentire: negli ultimi 18 mesi molte aziende, più le piccole e medie imprese che i grandi gruppi, hanno chiesto di innalzare il valore facciale del buono, che oggi si attesta mediamente sui 7 euro e può arrivare anche a 8, la soglia massima di defiscalizzazione. Questo porta anche scontrini più alti, con vantaggi per gli esercenti».

Nel caso in cui si decidesse per un ulteriore innalzamento della soglia di defiscalizzazione, l’effetto sarebbe garantito: «Come è già successo in passato salirebbero ancora gli importi medi dei buoni pasto e quindi degli scontrini, con un inevitabile vantaggio per tutto il territorio», assicura il direttore commerciale di Edenred.

Le alternative

Altre soluzioni per pranzare a lavoro non mancano: chi non ha o non vuole usare i buoni pasto per l’acquisto nei bar e ristoranti oppure per il delivery ha spesso a disposizione alternative come la mensa o il pasto da casa, quest’ultimo noto anche con il sinonimo milanese di schiscetta.Ma non mancano i possibili problemi anche in questo caso. Come ha evidenziato Oricon, l’Osservatorio Ristorazione Collettiva e nutrizione, la ristorazione collettiva d’appalto non si è ancora del tutto ripresa dal Covid: infatti, nel 2022 il fatturato si è attestato a 3,6 miliardi di euro, il 10,9 per cento in meno rispetto al 2019, e i pasti prodotti sono stati 759,2 milioni, l’11,5 per cento in meno rispetto al periodo pre-pandemico.

A colpire è soprattutto il crollo nel segmento specifico delle mense aziendali, dove i volumi prodotti sono anche venti punti percentuali inferiori rispetto a quattro anni fa. «Questo settore è quello più colpito dagli effetti della pandemia prima e del perdurare dello smart working poi e appare verosimile ritenere che in questo segmento i livelli pre Covid non siano più pienamente recuperabili» ha detto il presidente Oricon Carlo Scarsciotti, a Il Sole 24 Ore lo scorso febbraio.

Ci sono poi soluzioni ibride, come ad esempio le mense diffuse, cioè ristoranti convenzionati dove i lavoratori possono recarsi e pagare con badge, app e, ovviamente, anche con i buoni pasto. Per chi invece vuole evitare di pagare all’esterno, la prima soluzione resta sempre il pasto da casa. «C’è una regola che resiste dal governo Renzi riguardante la spesa e l’utilizzo dei buoni pasto: ad oggi non è ancora possibile utilizzare più di 8 buoni, costringendo così a “spezzare” una spesa più consistente in più riprese per chi ne vuole utilizzare di più. A ciò si aggiungono anche i buoni elettronici, che spesso hanno regole d’utilizzo ancora più severe rispetto a quelli cartacei. Per questo, la rimozione di questa regola, unita a una revisione del sistema di commissioni, può- aiutare sia i lavoratori che i commercianti» dice Michele Carrus, presidente di Federconsumatori. «Più che il trimestre antinflazione, aiuterebbero misure come il taglio delle accise sui carburanti, visto che l’86 per cento delle merci viaggia su gomma, e la sterilizzazione degli oneri di sistema per le bollette di luce e gas. Le risorse non mancano, visto che lo Stato ha incassato un maggior gettito Iva, grazie alle accise dei carburanti», sottolinea Carrus. In questo modo tutta la popolazione, non solo i lavoratori, vedrebbe scendere i prezzi dei generi alimentari e, per eventuali fenomeni speculativi legati all’inflazione, c’è la soluzione. «Affinché il consumatore possa scegliere con la maggiore trasparenza possibile, è necessario che sappia per alcuni prodotti-base qual è il prezzo medio. Infatti, nonostante i recenti rincari, i produttori sono coloro che hanno ricavato di meno: per questo servirebbe istituire un osservatorio di controllo a livello territoriale e dare al Garante per la sorveglianza dei prezzi la capacità di intervenire, sanzionando coloro che speculano». In questo modo, sottolinea Carrus, «molte storture verrebbero corrette, provvedendo ad un allineamento dei prezzi più alti al benchmark di riferimento».

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