È prodotto di recenti studi di politologia l’aver individuato un rapporto di forte connessione tra la maggiore o minore forza e coesione politica dei governi e l’attribuzione di spazi più ampi o più ristretti alla funzione giurisdizionale.

Viene definito “tribunalizzazione della politica” il fenomeno in base al quale vengono trasferiti verso le corti giudiziarie temi politici e sociali di grande rilievo, per il fatto che la politica non abbia voluto o non sia stata capace di risolverli nelle sedi parlamentari.

E ciò solitamente avviene o in ragione della difficoltà ad affrontare temi spinosi senza perdere di popolarità o a causa della eccessiva ampiezza della composizione politica della maggioranza di Governo, che non è in grado di trovare un minimo comun denominatore omogeneo per dare risposte alle istanze sociali.

Anche quando la risposta del legislatore arriva, peraltro, questa è frutto di estenuanti mediazioni che si traducono in una lettera normativa ambigua ed in un suo spirito incerto e confuso. Anche tale fenomeno contiene una implicita delega alla magistratura ed alla sua funzione interpretativa che è tanto più ampia quanto più la legge è mal scritta o ambigua e generica.

Ciò è avvenuto con grande evidenza in relazione a temi eticamente sensibili ma, in modo sotterraneo e ben più assiduo, ha riguardato questioni di primo rilievo nella definizione dell’identità democratica del nostro Paese.

Il trend è destinato ad invertirsi quando la coalizione politica di Governo abbia una maggiore omogeneità di principi e di programma e soprattutto sia investita di consenso maggioritario.

In queste circostanze la fisarmonica della delega rimessa alla giurisdizione è destinata a restringersi sia perché è ipotizzabile una più forte rappresentatività dei valori dominanti nel Paese, da porre a fondamento delle scelte politiche e normative più sensibili, sia perché il drafting normativo, non più frutto di estenuanti compromessi, dovrebbe essere più netto ed incisivo e lasciare minori spazi all’interpretazione della magistratura.

L’epoca del maggioritarismo non è per ciò solo negativa. All’opposto abbiamo sempre sostenuto che la debolezza della politica determina l’inevitabile apertura di spazi, talvolta davvero eccessivi, rimessi con delega in bianco al potere giudiziario. Ed abbiamo più volte sottolineato come questo abbia determinato una sovraesposizione della magistratura, chiamata a sopperire attraverso il diritto giurisprudenziale all’immobilismo nell’azione politica del Governo e del Parlamento. Sovraesposizione che alla lunga impone alla magistratura di operare scelte dall’indubbio contenuto politico e che, quindi, ne può mettere in discussione l’apparente terzietà rispetto agli opposti schieramenti che animano il dibattito sociale sui temi sensibili.

Ben venga quindi una politica forte, con ampio consenso nel Paese e portatrice di valori netti, capaci di tradursi in testi normativi chiari così restituendo le scelte politiche alla loro sede naturale. Se il maggioritarismo si limitasse a questo...

Ciò a cui assistiamo invece va ben oltre: sia in Polonia che in Israele, ma anche in Ungheria, in Turchia, in Tunisia più di recente, tutti Paesi nei quali i Governi in carica hanno una investitura maggioritaria, viene espressamente rimesso in discussione il ruolo del potere giudiziario, a partire dalle rispettive Corti Costituzionali, quale presidio di garanzia delle minoranze ed argine alla “tirannia delle maggioranze”, attraverso il controllo di legittimità sulle scelte normative operate dal Parlamento. Si sciolgono gli organi di autogoverno, si destituiscono magistrati autori di decisioni sgradite.

L’insofferenza del governo

Nel nostro Paese, da un anno a questa parte, i segnali di insofferenza delle forze di Governo nei confronti delle istituzioni di garanzia si susseguono in modo allarmante attraverso vere e proprie campagne di delegittimazione che hanno colpito già l’Autorità nazionale anticorruzione, il Governatore della Banca d’Italia, il Procuratore Nazionale Antimafia, gli Uffici di bilancio della Camera dei Deputati e del Senato...

E non sono mancati gli interventi normativi già adottati e volti alla riduzione dei poteri di controllo attribuiti alla Corte dei Conti proprio in concomitanza con la spesa dei finanziamenti del PNRR. Come se tale attività non comportasse il concreto rischio di sviamento dei fondi pubblici, determinato dall’illegalità politico-economica o dalla criminalità organizzata.

Ma il nodo centrale è costituito dall'attacco portato alla giurisdizione ed ai diritti.

Su questi ultimi abbiamo organizzato una tavola rotonda, che seguirà il mio intervento, e per brevità rimando ad essa e ai nostri ospiti, che tracceranno il quadro degli interventi governativi, in parte programmati e in parte già eseguiti, e che sono funzionali a rimettere in discussione traguardi già conseguiti e che ritenevamo inviolabili nella salvaguardia dei diritti civili e politici, del lavoro, della libertà di informazione, degli stranieri e dei migranti, del principio di indipendenza interna ed esterna della magistratura.

Rivolgo invece la mia attenzione all'attacco portato alla giurisdizione. Che mi sembra mosso su diversi piani e a diversi livelli, tutti convergenti verso un drastico ridimensionamento del potere giudiziario quale strumento di controllo della legalità del Paese, di tutela dei diritti, di contrasto ai fenomeni illegali.

Un primo piano è certamente quello dell'attacco portato alla funzione interpretativa del diritto; funzione che costituisce l'essenza del nostro ruolo nel sistema costituzionale.

È diffusa l'insofferenza per le decisioni che affermano e tutelano diritti che la cultura di Governo vorrebbe fossero negletti o fortemente ridimensionati. Anche quando quella tutela discende direttamente dai principi costituzionali e dalla normazione sovranazionale che l'Italia si è impegnata a rispettare. Si pretende che l'attività di interpretazione si sviluppi non in linea con tali architravi ma in coerenza con i nuovi valori che si vanno affermando, ancorché non ancora normativamente definiti. Si pretende sostanzialmente di sostituire il riferimento costituzionale che guida l'interpretazione con il sentimento diffuso nel Paese, rispetto al quale la maggioranza si propone interprete.

E quando questo non avviene, e difficilmente potrebbe, immediata è la reazione di rigetto, che confonde artatamente l'interpretazione del diritto operata dalla magistratura con la creazione del diritto riservata al legislatore e propone all'opinione pubblica l'immagine di una magistratura usurpatrice degli altri poteri e trasmodante in una funzione politica a lei estranea. Devo dire con rammarico che questa lettura è condivisa anche ad alcuni orientamenti culturali interni alla magistratura che rimbalzano e riecheggiano, con linguaggio forbito, questa ricostruzione falsificata.

La libertà di manifestazione del pensiero

Altro versante è quello della libertà di manifestazione del pensiero, soprattutto quando è critico, da parte dei singoli magistrati e delle nostre associazioni. Anche qui la reazione è veemente, ma solo quando il magistrato dice cose sgradite e non sintoniche al sentiment maggioritario.

Si arriva a negare la libertà di espressione, utilizzando strumentalmente ed in modo inappropriato una lettura del dovere di terzietà del magistrato che aveva forse campo nell'epoca del regime e a brandire la minaccia disciplinare; potere del quale, peraltro abbiamo già dovuto contestare recenti utilizzi strumentali e in contrasto con le norme vigenti.

Oltre alla libertà di espressione dei singoli viene poi contestata la libertà di associazione dei magistrati. Mai avremmo immaginato di dover difendere, nel dibattito pubblico, la libertà dell’ANM, la sua piena legittimazione, ad intervenire sui temi delle riforme della giustizia e della magistratura come avvenuto in questo anno. E' grave che anche segmenti autorevoli dell'avvocatura anziché schierarsi a tutela della libertà di espressione di tutti e anche nostra, avvalorino questa lettura antidemocratica di un principio cardine della giurisdizione quale la terzietà del magistrato.

Potrei continuare ricordando le aggressioni al ruolo e alla persona, subite da magistrati impegnati nella gestione di complesse indagini e relativi processi che coinvolgono personalità politiche di primo piano. Tra queste la più grave è certamente quella portata alla Procura della Repubblica di Firenze e in particolare ad alcuni di quei magistrati ai quali rivolgiamo la nostra calorosa solidarietà.

Ma per brevità mi limito a rammentare l'ultima declinazione della campagna orientata a delegittimare il ruolo della giurisdizione e persino le decisioni giudiziarie.

La definirei “revisionismo giudiziario” perché, come nel revisionismo storico si tenta di rimettere in discussione la verità dei fatti accaduti al fine di alleggerire il peso di responsabilità politiche che grava sulle spalle degli eredi di risalenti e tramontate esperienze politiche che sono state drammatiche per il Paese. In questa nuova declinazione il revisionismo riguarda i fatti accertati da giudicati risalenti, tra i pochi che hanno fornito risposte reali circa la ricostruzione dei fatti e l'individuazione almeno parziale dei responsabili.

Mi riferisco in particolare alla strage di Bologna. Risposte che si vuole rimettere in discussione attraverso l'utilizzo inappropriato delle commissioni parlamentari di inchiesta i cui esiti sarebbero scagliati contro le sentenze per inquinarne la credibilità e così travolgendo definitivamente l'autorevolezza di accertamenti, raggiunti all'esito di un impegno condotto con grande sacrificio da generazioni di magistrati.

Le riforme

E fin qui nulla abbiamo ancora detto delle riforme.

Anche in questo campo si distinguono due piani. Quello della riforma della magistratura e dell'organo di governo autonomo e quello delle riforme che riguardano la giustizia e, principalmente, lo strumentario di diritto penale sostanziale e processuale.

In relazione al primo aspetto non voglio sottrarre argomenti a chi abbiamo invitato con grande piacere a partecipare alla nostra tavola rotonda proprio per approfondire il tema.

Mi limito a ribadire cosa già detta più volte: sotto l’ombrello della c.d. “separazione delle carriere” vengono nascoste norme insidiose per gli equilibri democratici definiti dalla Costituzione, alcune di queste sono state più volte anticipate dal Ministro Nordio che si appresta a presentare un disegno di legge.

Un PM separato che non conduce più le indagini e che non coordina la polizia giudiziaria sarà strumento dell'iniziativa di quest'ultima che, a sua volta, sarà alle dirette dipendenze del decisore politico da cui dipende funzionalmente e gerarchicamente. Verrà meno quindi lo scudo, fornito dalla nostra indipendenza e direzione delle indagini. Un presidio che, fino ad ora, ha impedito che il diritto penale venisse piegato in chiave securitaria, di diritto penale del nemico sociale della maggioranza di turno, di strumento di lotta politica da brandire contro l'opposizione, ed inguainare al cospetto delle illegalità diffuse nelle file dei Governi e dei loro alleati politici ed economici.

Anche l'intervento riformatore sull’art. 101 comma 2 della Costituzione inquieta e sgomenta. Se i giudici non sono più soggetti “soltanto” alla legge sono soggetti a “qualcos'altro” rispetto alla legge. Qualcosa che può interferire nelle loro decisioni e condizionarle, anche soltanto dall'interno degli uffici e della piramide giudiziaria, trasformando definitivamente il modello costituzione della giustizia, inquinandone la limpidezza e compromettendone l'affidabilità e la reputazione nella comunità.

Quanto allo strumentario penale vengono subito in mente le nuove norme incriminatrici introdotte per contrastare i rave party ed i graffitisti che, in parallelo con la spinta turbocompressa in favore dell’abolizione dell'abuso d'ufficio, definiscono una dimensione del diritto penale sempre inteso in chiave politica e classista. Caratterizzato da un marcato accento securitario che si accompagna alla blandizia verso segmenti di illegalità che riguardano il potere politico ben più da vicino.

E le stesse linee direttrici si leggono chiaramente nell'approccio agli strumenti investigativi, primi tra gli altri le intercettazioni telefoniche ed il trojan. Qui le limitazioni perseguite sono volte esclusivamente a tutelare la stessa classe politica ed amministrativa nonché i settori economici a lei più prossimi, i cui reati vengono declassati tra quelli “di minor gravità”. Mentre la propaganda legalitaria viene alimentata attraverso la sbandierata fermezza nel contrasto al crimine organizzato, come se i magistrati più autorevoli ed impegnati sul campo non avessero spiegato, con argomenti ed esempi concreti, la forte interconnessione tra quest'ultima criminalità e l'illegalità del mondo politico, amministrativo ed economico.

La debolezza della magistratura

C'è da dire che questa forte spinta al ridimensionamento del ruolo e della funzione della giurisdizione coglie la magistratura in una fase di debolezza. Una debolezza determinata da carichi di lavoro ingovernabili e crescenti, da carenze di persone e mezzi, dalla frustrazione determinata dai tempi lunghi e dalla scarsa effettività delle decisioni, da riforme che, come quella intestata alla Ministra Cartabia, spingono verso risultati misurabili soltanto attraverso il parametro della quantità trascurando gli aspetti qualitativi.

Che introduce procedure che complicano e rallentano invece di snellire, che vede una chiave di soluzione dei problemi nella gerarchizzazione, anche degli uffici giudicanti, nel conformismo acritico rispetto al precedente giurisprudenziale e nell'agitare lo spauracchio delle valutazioni di professionalità e della responsabilità disciplinare. Misure forse utili a governare una categoria di neghittosi e incapaci ma mortificanti per i magistrati italiani che tra mille difficoltà hanno mantenuto un livello alto di impegno e professionalità.

Spero di essere smentito ma non mi aspetto che il CSM voglia contrapporre, al disegno di restaurazione dell’attuale maggioranza politica, le energie necessarie e che solo pochi anni fa sarebbero state messe in campo, coralmente, da tutte le anime culturali della magistratura. Questo perché, ad un anno dal suo insediamento, il nuovo Consiglio sembra anch'esso caratterizzato da logiche maggioritarie che vedono alleati i rappresentanti della magistratura conservatrice ed i laici espressi dalla stessa maggioranza di Governo, accomunati anche dalla condivisione di alcune posizioni. Mi riferisco, ad esempio, al tema dell'interpretazione delle leggi e del diritto alla manifestazione pubblica del pensiero da parte dei magistrati già sopra richiamati.

In verità sembra essersi creata anche una forte collaborazione operativa tra le stesse componenti della magistratura e le forze di Governo, che trova le sue articolazioni principali in Via Arenula e anche presso la Presidenza del Consiglio.

Sembra difficile immaginare che questa intesa possa infrangersi al cospetto del disegno politico di complessivo ridimensionamento del ruolo della giurisdizione.

Il Csm

Eppure, non è una cosa buona che il CSM possa essere governato stabilmente da un unico blocco maggioritario che ne determini le scelte di alta amministrazione e di politica giudiziaria. Non è bene perché il CSM non è organo di governo ma di garanzia e deve, nelle sue decisioni consentire a tutti i magistrati di riconoscersi e sentirsi rappresentati.

Già in passato abbiamo assistito ad un Consiglio governato da una maggioranza stabile e pressoché permanente. Ne è seguito il consociativismo delle permanenti unanimità, basate su logiche di spartizione correntizia. Né l'una né l'altra esperienza hanno fatto bene alla magistratura ed all'organo quanto potrebbe invece un Consiglio che, pur agendo attraverso l'inevitabile schema delle maggioranze, preveda una composizione volta a volta differente delle stesse, dando immagine concreta ad una contrapposizione tra differenti opzioni e valori e non di una aggregazione animata dal comune intento, seppur per finalità differenti, di gestire da sola il potere che l'organo esercita sulla comunità dei magistrati e sulla direzione e organizzazione degli uffici giudiziari.

Certamente in questo anno il CSM non ha avuto modo ancora di affrontare i temi che evidenzino la radicale differenza tra la visione della giurisdizione largamente condivisa in magistratura e quella che viene prospettata dal Governo in carica.

Ma alcune scelte, se valutate per le argomentazioni esplicitate, sono già indicative di valori che certo non possiamo condividere.

Mi riferisco, per fare solo un esempio, ad una recente delibera che, per la nomina di un procuratore della Repubblica (proprio qui in Sicilia), preferisce un componente della Procura Generale presso la Cassazione ad un magistrato che aveva già positivamente svolto lo stesso incarico in altri precedenti uffici. Quella decisione si fonda sul positivo e prevalente apprezzamento di chi possa fare “nomofilachia circolare”, cioè, immagino, una sorta di evangelizzazione delle giurisdizioni di merito attraverso la diffusione delle decisioni e dei principi affermati dalla Suprema Corte.

Una scelta che tradisce una visione gerarchica e verticistica della magistratura, che pone al suo apice gli uffici di legittimità e che nei fatti certamente interpreta fedelmente, anziché contrastarlo, un disegno di arretramento rispetto all'idea di una giurisdizione orizzontale e diffusa che è propria della Costituzione.

Vedremo come si atteggerà la maggioranza consiliare alla prova delle tematiche che implicano scelte valoriali, come l'imminente circolare sull'organizzazione dell'ufficio del PM.

Su questo tema è la legge che finalmente pone riparo ai guasti di una eccessiva gerarchizzazione degli uffici e di una dirigenza senza controlli e senza responsabilità, reintroducendo le Procure nel circuito tabellare.

Non si tratta di rinunciare al necessario potere di indirizzo e di coordinamento del Procuratore ma di porre dei contrappesi ad un potere pressoché assoluto che consente oggi, seppur nella sua patologia, di giungere alla mortificazione personale e professionale dei magistrati dell'ufficio, come avvenuto recentemente nella Procura della Repubblica di Nola, dove oggi, i giovani magistrati che hanno avuto il coraggio di denunciare gli abusi si trovano, loro, a subire un procedimento disciplinare.

Dopo aver delineato il contesto, in modo certamente sommario ed impressionistico siamo arrivati al “Che fare?”.

Come può un gruppo di magistrati come il nostro resistere e possibilmente reagire a questo disegno di alterazione profonda del modello costituzionale di giurisdizione?

Che fare

Innanzitutto, possiamo e dobbiamo mantenere accesa la luce, coltivando la cultura del nostro ruolo e delle nostre funzioni per come sono state disegnate dalla Costituzione. Esclusivamente al servizio dei diritti e dei cittadini. Praticando quotidianamente tutti gli spazi che ci sono riservati nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto, con competenza e professionalità, senza auto censurarci per compiacere il sentiment maggioritario o per timore di essere investiti da campagne mediatiche di delegittimazione, anche personale, orchestrate ad arte.

Ponendo la massima accuratezza ed attenzione nell'assunzione delle nostre decisioni e nella redazione dei provvedimenti, nella consapevolezza che ogni distrazione, ogni scivolone verrà enfatizzato e strumentalizzato per delegittimare il nostro operato e l'intera categoria professionale.

Dobbiamo essere consapevoli della posta in gioco e rendere consapevole l'intera magistratura dei rischi connessi alla realizzazione del disegno di restaurazione, nella convinzione che il modello costituzionale sul quale ci siamo formati sia ancora patrimonio culturale vivente ed intimamente condiviso tra i colleghi, comprese le generazioni più giovani che dobbiamo saper formare innanzitutto con l’esempio.

Dobbiamo uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico, ovunque si svolga, per spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce l'effettività dei loro diritti. Dobbiamo saper fare rete coinvolgendo nella riflessione e nella critica le forze politiche e sociali che sono più affezionate al bilanciamento tra i poteri garantito dall'assetto ordinamentale vigente, la cultura giuridica, il personale amministrativo, alla cui dedizione dobbiamo tanta parte dei risultati perseguiti, l'avvocatura che dobbiamo sollecitare ad abbandonare le sterili contrapposizioni e a schierarsi per la preservazione di una giurisdizione realmente indipendente che non possono non avere anche loro a cuore.

Dobbiamo farlo, possiamo farlo e sappiamo farlo, perché siamo in possesso delle chiavi di lettura necessarie per capire la direzione che si sta prendendo e le conseguenze negative che ne verranno, forti degli strumenti culturali che vengono dai gruppi associativi che hanno dato vita ad AreaDG e del contributo dei tanti che si sono aggiunti. Siamo un gruppo di magistrati che ancora ritiene che la militanza culturale sia un valore e lo pratichiamo quotidianamente, attraverso un dibattito interno ed esterno particolarmente ricco ed effervescente. Siamo un gruppo di magistrati che non delega ad altri la rappresentanza ma nel quale ognuno rivendica il dialogo ed il confronto.

In conclusione, di questa relazione, che è l'ultima che rivolgo al gruppo nelle vesti di Segretario, mi concedo qualche ultima considerazione personale e qualche ringraziamento.

Il ruolo di Area

In questi ultimi quattro anni AreaDG ha proseguito il percorso già intrapreso e si è rafforzata nei contenuti e nella coesione. Molto si deve alla comunione di valori che ha tenuto unito il gruppo dirigente, le rappresentanze che si sono succedute in ANM ed al CSM, le dirigenze locali, i nostri rappresentanti nelle GES e nei consigli giudiziari. Una comunione di valori cresciuta nel dialogo continuo e nell'assoluta condivisione di strategie e di intenti.

È una modalità d'essere che dobbiamo proseguire e se possibile intensificare, perché costituisce la nostra forza e ci rende un soggetto attrattivo ed aggregante. Da parte mia sono stati anni di impegno ma anche di enorme soddisfazione, sono grato ed orgoglioso per la fiducia che avete riposto in me, per il sostegno e l'affetto che non mi è mai mancato e che spero di essere riuscito a restituire, almeno in parte.

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