Il Novecento non è ancora del tutto storia, ma è ancora quasi presente in un’Italia che non ha ancora davvero fatto i conti con le proprie ideologie e con le vicende ancora oscure che ne hanno macchiato alcuni decenni.

Proprio questa storia non ancora storicizzata è al centro del saggio Testimoni di un Secolo, edito da Baldini+Castoldi e scritto da Ugo Intini, che nelle quasi settecento pagine riversa ciò che ha di più prezioso: i suoi ricordi di cronista e testimone degli eventi che hanno trasformato l’Italia.

Socialista, giornalista e direttore del quotidiano l’Avanti!, Intini sceglie di ricordare 48 tra i protagonisti e i comprimari della storia politica italiana: da Giulio Andreotti a Giancarlo Pajetta, rispettivamente la «quintessenza» del democristiano e del comunista, ai mostri sacri del socialismo come Pietro Nenni, che apre il libro, e Sandro Pertini, fino a Bettino Craxi, che invece lo chiude.

Non mancano i grandi giornalisti che hanno fatto la storia del giornalismo italiano, primo tra tutti Walter Tobagi, assassinato nel 1980 dal gruppo terroristico di estrema sinistra Brigata XVIII Maggio, e che iniziò da ragazzo di bottega proprio nella redazione dell’Avanti!, sotto la guida dell’allora caporedattore Intini.

I ritratti sono dei piccoli racconti a sè stanti, che letti insieme offrono un affresco inedito non solo dei fatti, ma soprattutto degli intrecci.

Lo scontro tra politica e giustizia

Il più inatteso di questi intrecci riguarda la giustizia e soprattutto il senso che ne ebbero i socialisti.

Scorrendo i capitoli del libro, emerge come i semi della stagione presente, segnata dagli scandali che sembrano aver svelato verità nascoste sul potere giudiziario e i suoi macchiavellismi, siano stati gettati molto prima di quanto comunemente si ritiene.

L’aneddoto più interessante riguarda Pietro Nenni, il cui ritratto apre il libro e che viene definito «un mito per Craxi che lo chiamava con solennità “il vecchio”» e per la generazione di giovani socialisti di cui Intini faceva parte. Lui, che «sapeva guardare lontano forse anche perchè veniva da lontano», aveva inquadrato i mali della magistratura solo un anno dopo la creazione del Consiglio superiore.

Era stato proprio Nenni a imporne la creazione, nel 1963, come parte essenziale del primo governo di centro sinistra guidato da Aldo Moro, in attuazione del dettato costituzionale.

Già nel 1964 scriveva che «l’indipendenza della magistratura va assumendo forme che fanno di quest’ultima il solo vero potere, un potere insindacabile e, a volte, irresponsabile. C’è da battere le mani se finalmente qualcuno affronta la mafia del malcostume. Ma c’è anche da chiedersi chi controlla i controllori».

Proprio questo dubbio su come il Csm svolgeva il suo ruolo sembra farsi certezza nel 1974, quando della magistratura e soprattutto di quella associata scrive che «l’abbiamo voluta indipendente e ha finito per abusare del potere che esercita. Per di più, è divisa in gruppi e gruppetti peggio dei partiti».

Difficile non cogliere gli stessi echi nelle parole dei molti candidati indipendenti che proprio in queste settimane sono impegnati nella campagna per l’elezione dei 20 consiglieri togati del Csm. 

Più che uno scontro di visioni, infatti, quello che sta prendendo forma in queste settimane è l’opposizione tra chi si fa forte del suo essere esterno ai gruppi associativi, nei quali riconosce mali simili a quelli su cui si interrogava Nenni, e chi invece continua a credere che il gruppo associativo sia necessario alla democrazia interna delle toghe proprio perché esplicita i riferimenti culturali a cui il candidato risponde.

La riforma Vassalli

Alla luce di queste convinzioni di Nenni, paradosso storico vuole che la più importante riforma della giustizia post-fascista porti il nome proprio di un socialista come Giuliano Vassalli.

Vassalli, eroe della resistenza a capo delle brigate Matteotti di Roma, liberò dalla cattura delle SS ben due presidenti della Repubblica: Sandro Pertini e Giuseppe Saragat. Nel 1978, Bettino Craxi aveva provato a portarlo proprio al Quirinale, ma gli accordi politici fecero prevalere il nome di Pertini. 

A penalizzarlo, racconta Intini, fu però l’ostilità del Pci, dovuta al suo essere stato socialdemocratico ma soprattutto al «suo ruolo di poche settimane prima nel tentativo di salvare Moro trattando con le Br». Vassalli, infatti, era alla guida del team di consiglieri che gestiva la crisi per i socialisti e tentò fino all’ultimo di costruire le condizioni perchè lo Stato negoziasse per far liberare lo statista democristiano.

Craxi, infine, riuscì a portare Vassalli a via Arenula: dal 1987 al 1991 fu ministro della Giustizia e «come Nenni pensava che una indipendenza male intesa aveva trasformato la magistratura in un potere insindacabile, incontrollabile e a volte irresponsabile».

Per questo i socialisti promossero insieme ai radicali il referendum del 1987 che approvò la responsabilità civile dei magistrati «ma i risultati pratici furono vicini a zero, perchè si dovette mediare con Dc e Pci e perchè le leggi devono essere applicate e ad applicarle sono appunto i magistrati stessi».

Proprio Vassalli, insieme al repubblicano Giandomenico Pisapia varò l’attuale codice di procedura penale, ancora noto come «codice Vassalli» e ultima riforma sistematica della giustizia, che trasformò il processo da inquisitorio ad accusatorio.

Craxi e Mani Pulite

Merito del racconto di Intini è fermare su carta le opinioni personali che molti leader gli hanno affidato, conversando con lui. 

Nell’imponente mole di aneddoti che nel libro si ritrovano su Bettino Craxi, vale la pena di ricordarne uno in particolare, che oggi suona attuale in modo quasi beffardo.

Intini racconta di un suo colloquio con il segretario socialista, proprio negli anni in cui Vassalli era ministro della Giustizia ed erano entrambi preoccupati per la lunghezza interminabile dei processi che i magistrati dell’epoca – come anche quelli di oggi – attribuivano alla mancanza di personale.

«"Ma cosa sarà mai”, diesse Craxi, “assumerne mille in più?”. Ottenne gli stanziamenti e chiamò festante l’Associazione di categoria per annunciarli. “Ma sai cosa ho capito?”, mi disse, “fanno un sacco di storie, non vogliono aumentare di numero, perchè meno sono e più potere hanno”».

Il picconatore e le toghe

Del conflittuale rapporto tra giustizia e politica, però, forse il più significativo rappresentante è un democristiano. Intini fa il ritratto del presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che non a caso fu anche docente di Diritto costituzionale, e ne ricorda le «semplificazioni crude» soprattutto in materia di giustizia, ma che acutamente coglievano nel segno.

Le parole che Intini attribuisce al capo dello Stato hanno echi che non possono non richiamare il difficile presente del Csm: «“Sono io il presidente del Csm”, diceva, “il presidente è il capo dello Stato che è una autorità innanzitutto politica. E non per caso. Perchè la magistratura non può diventare un contropotere rispetto alla politica. I guai sono cominciati quando prima i presidenti della Repubblica stessi e poi tutti quanti si sono dimenticati chi è il presidente del Consiglio superiore della magistratura”».

Sono sprazzi di conversazioni che chiariscono episodi di storia già noti - come la minaccia di Cossiga di mandare i carabinieri a palazzo dei Marescialli - mostrando un dietro le quinte rivelatore di caratteri, prima ancora che di idee politiche.

Questo è il merito di Intini: offrire al lettore, che sappia seguirlo nelle curve tortuose della storia del Novecento, più di qualche risposta inedita alle tante questioni ancora aperte sul secolo breve.

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