Ho letto con qualche stupore la notizia della sentenza della Corte Costituzionale numero 10/24, e la nota di entusiastico commento dell’avvocata Maria Brucale.

Devo ammettere che coltivavo una diversa rappresentazione della realtà. Pensavo che i temi più gravi in materia di trattamento carcerario fossero quello (antico) del sovraffollamento; della carenza di organici degli agenti di custodia (molti dei quali applicati ad altri incarichi); della presenza in carcere di detenuti che fino a pochi anni fa avrebbero trovato posto negli ospedali psichiatrici giudiziari (chiusi ormai da nove anni), ma ora non lo possono trovare nelle REMS; del numero sempre più impressionante di suicidi in ambiente carcerario (quest’anno, uno ogni due giorni); o anche della frequenza di casi molto particolari ma interessanti sotto il profilo della cronaca, quali la nascita di bambini in cattività.

Invece, il tema su cui è intervenuta la Corte è diverso: il diritto dei detenuti di poter intrattenere con soddisfazione rapporti sessuali con mogli, fidanzate, compagne, o forse anche con professioniste del settore. Un impegno in questa direzione imporrà un cospicuo investimento nella progettazione e costruzione di appartamentini a pertinenza delle carceri, che siano di soddisfazione per la tutela della intimità degli incontri ma non si prestino a troppo facili evasioni; ma la collettività deve considerarsi obbligata a sostenerlo, a fronte della importanza primaria del risultato da conseguire.

gli Opg

Confesso, però, che non mi sono convinto né redento dal mio errore; e vorrei insistere sull’argomento della condizione dei detenuti, aggiungendo poche righe al tema che forse a torto ritengo il più attuale: la mancata presa d’atto della chiusura degli OPG, ad opera principalmente dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011.

Poche righe possono bastare, perché tutto o quasi tutto è già scritto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 2022 (la penna è quella del prof. Viganò). Sentenza esemplare e chiarissima, anche se si conclude con un atto di resa all’impotenza.

I fatti: dopo la chiusura dei OPG, in Italia vi erano 36 REMS attive per un totale di 652 posti letto disponibili; la dotazione a regime dovrebbe ora attestarsi innalzarsi a circa 740 posti letto. Questo limite ha determinato la formazione di liste di attesa; infatti le REMS costituiscono presidi medici, e non è possibile incrementare il numero dei ricoverati rispetto alle disponibilità. Il tempo medio di permanenza in lista d’attesa è indicato in 304 giorni, anche se diverso da regione a regione.

Si tra parlando del trattamento, insieme contenitivo e terapeutico, di autori di reato che, essendo penalmente non responsabili, “non possono essere destinatari di misure aventi un contenuto punitivo”, ma la cui pericolosità sociale è accertata per il compimento di fatti costituenti reati anche molto gravi, e richiede misure atte a contenerla a tutela della collettività dalle sue ulteriori manifestazioni. E dunque in attesa del ricovero essi sono o affidati a strutture sanitarie non coercitive, alle quali però possono sottrarsi senza alcuna difficoltà, o nei casi più gravi devono ristretti in carcere.

Ho avuto la fortuna di andare in pensione solo quattro anni dopo questa novità di legge; e quindi ho vissuto una sola esperienza in questa materia: si trattava di un imputato condannato in rito direttissimo per aver tentato di incendiare e far esplodere un distributore di benzina nel centro di una città, ed in concreto non era possibile ricoverarlo in una struttura diversa dal carcere; l’esperienza si interruppe molto presto, perché l’uomo appena in carcere si tolse la vita.

Non avrei altro da aggiungere; mi chiedo quanto delle considerazioni senza conforto che precedono siano dettate dalla mia esperienza personale.

Perché per trenta anni avevo frequentato un vecchio carcere edificato nel centro della mia città da un imperatore di altri tempi, ed in quelle occasioni ho vissuto in un posto diverso da tutti gli altri, dedicato e speciale, ove cercare le ragioni di una sofferenza e di colpe che in quel luogo trovavano lo specchio, una sorta di ragione di compensazione. Per i suoi spazi ristretti, la vita in esso era difficile, per detenuti e agenti, ma era pur sempre connotata da una dimensione distesa dei rapporti umani tra loro e con le persone che si recavano per lavoro in quel luogo.

Da quindici anni ormai le nuove carceri della città, frutto di scelte razionali e moderne, sono lontane dal centro; strumento insieme efficiente e spietato, ci si reca in esse come si farebbe in un centro commerciale, o se si preferisce in una base militare; la sofferenza di chi si trova in quel luogo sparisce, ed il visitatore aspetta solo di terminare il compito al quale sta assolvendo con burocratica puntualità.

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