Due circolari amministrative a confronto, una del direttore generale dei detenuti e trattamento, l’altra del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, mostrano due visioni opposte di carcere: una di carcere come “non luogo”, l’altra di carcere come luogo in cui comunque poter restare parte attiva della società
Il carcere appare sempre più opaco, sempre più chiuso, strumento non di recupero ma di segregazione e di isolamento sociale, di negazione di relazionalità, di esclusione dalla comunità civile. Una visione volutamente solo punitiva, assai distante dal sentire dei Padri Costituenti, tesa a disegnare solo l’apparenza fallimentare del baluardo di sicurezza del buttare la chiave e a nascondere la sconfitta dello Stato e del suo sistema penitenziario dietro una coltre sempre più fitta di burocrazia, di firme e di autorizzazioni, di cavilli e di ostacoli, di castelli di carta.
Eppure, il progetto luminoso dell’ordinamento penitenziario di dare finalmente, a distanza di quasi trent’anni, attuazione al dettato costituzionale finalizzando ogni pena alla restituzione in società, mette l’uomo al centro, come individuo. Disegna una rete di norme volta al riconoscimento della dignità come connotato universale, il piatto stesso della bilancia, per evocare la lezione del Presidente emerito della Corte costituzionale Silvestri, che non si riconosce per meriti e non si perde per demeriti. Chiarisce che non può esistere punizione senza finalizzazione al recupero e alla restituzione che si compie attraverso la partecipazione all’ offerta formativa nutrita di occasioni di socialità, di condivisione del pensiero, di studio, di evoluzione nel rapporto con la società esterna.
«Libertà è partecipazione», diceva Gaber e gli spazi residui di libertà anche in carcere sono da proteggere ad ogni costo perché esprimono la sostanza di ogni uomo che si evolve ed è tutelata nell’ambito delle formazioni sociali ove si esprime la sua personalità.
Nessuno si salva da solo e l’ambiziosa speranza costituzionale di rieducare è saldamente ancorata all’assolvimento di obblighi solidaristici verso chi è incorso nel reato attraverso una contaminazione positiva che si fa spazio grazie alla relazione, allo studio, all’ arte, al teatro, alla lettura, alla parola su tutto. Così tanto più grave è stata la caduta nel crimine, tanto più necessaria è quell’opera di incontro e di scambio continuo di contenuti per innestare spunti di ideazione e di azione su strade nuove, su strade buone.
La circolare sugli eventi educativi
La circolare del 21 ottobre a firma del Direttore generale Napolillo sui provvedimenti autorizzativi di eventi a carattere educativo, culturale e ricreativo, oltre a privare sostanzialmente di ogni potere i provveditorati regionali, si innesta, invece, in un disegno già ampiamente avviato di marginalizzazione ed esclusione delle persone detenute nei circuiti di alta sicurezza relegandole all’ isolamento, negando loro quegli spazi di incontro e di confronto con il mondo fuori che, soli, possono produrre stimoli di cambiamento e di superamento delle subculture della criminalità organizzata.
Impediscono, così, il dirompente effetto disgregante della riuscita del progetto riabilitante sui condannati per mafia che abbiano saputo trovare in modelli positivi, con cui abbiano potuto entrare in contatto, la capacità di cambiare e siano, così, riusciti ad approdare a una vita improntata all’ adeguamento e alla condivisione delle regole della società civile. Spengono, di fatto, la tensione della pena in carcere al recupero e al reinserimento della persona condannata determinando una cesura sempre più marcata dalla società civile.
Negano ai ristretti che già vivono una condizione insopportabile di afflizione a causa del sovraffollamento - in strutture fatiscenti che non garantiscono neppure il decoro minimo e la decenza, in cui l’ accesso a ogni diritto fondamentale si traduce in supplica ormai frustrata, in cui i legami familiari si sgretolano, in cui gli spazi destinati alle attività ricreative e didattiche vengono riempiti di brande per accatastare corpi da chiudere, in cui le malattie psichiatriche si moltiplicano, espressione di un dato patologico che nel carcere ha la sua genesi e la sua struggente esasperazione, in cui il dolore del vivere si traduce in migliaia di gesti autolesionistici e tanti, troppi suicidi – anche la speranza, meglio l’ illusione, di essere ancora parte di una comunità.
In questo scenario, appaiono coerenti quanto allarmanti le parole di Napolillo che – nell’ambito di un convegno dal titolo “Amministrazione penitenziaria. Un’emergenza sociale” - con toni nostalgici parla dell’ordinamento penitenziario del 1975 come una rete di norme forse non più attuale perché avrebbe nel tempo tradito la sua originale funzione, quella, nella sua lettura, di disegnare il carcere come un “non luogo”, fuori dalla società civile con i muri alti atti ad estraniare, anche un “non tempo” idoneo alla segregazione eppure a vocazione trattamentale intesa come eliminazione di ogni libertà di autodeterminazione del recluso che non avrebbe alcuno spazio di libertà residuo perché “lasciare uno spazio vuoto in un istituto” vuol dire che “o lo Stato è assente o quello spazio sarà conquistato dalla criminalità”.
Secondo il direttore generale dei detenuti e trattamento, non si può in carcere adottare il modello della società civile in cui l’autodeterminazione ammette la possibilità di esprimere delle scelte nel quotidiano, in carcere gli spazi liberi non possono esistere perché “o c’è lo Stato con la legalità o c’è la criminalità”. Uno sconcertante fraintendimento della finalità dell’ordinamento penitenziario, quella di definire, in coerenza al dettato costituzionale, una pena utile al recupero del recluso valorizzandolo come persona in ciascun aspetto della sua personalità e caratterizzando la reclusione come simile il più possibile alla vita libera, riempiendo di contenuti formativi gli spazi residui di libertà. Un travisamento anche del progetto trattamentale secondo Costituzione, vocato mai alla segregazione e alla esclusione - che evoca l’oscena rappresentazione della damnatio ad metalla - ma, sempre, alla risocializzazione, alla reintegrazione, alla responsabilizzazione di ogni ristretto quale membro della collettività.
La circolare del capo del Dap
A tale scenario si contrappongono con forza, almeno nelle palesate intenzioni, le parole di un’altra circolare, del 10.10.2025 a firma di Carmine De Michele, capo del Dap:
«Il comportamento dei detenuti che scelgono di rivendicare diritti attraverso modalità aggressive e violente, lungi dall’essere meri atti di indisciplina, costituisce spesso il sintomo evidente di disfunzioni organizzative interne che devono essere affrontate in via prioritaria. […]
L’esperienza dimostra che la sicurezza e il trattamento non sono due binari paralleli, ma due dimensioni inscindibili della vita penitenziaria. Ogni ritardo nella consegna di effetti personali, ogni incertezza nell’organizzazione di colloqui o telefonate, ogni lentezza nella gestione sanitaria o amministrativa diventa terreno fertile per malcontento e conflittualità».
Nello scenario politico attuale le parole del capo Dap arrivano come balsamo su ferite tutte aperte perché colgono e comprendono l’inscindibile connessione tra atteggiamenti reattivi anche violenti da parte dei detenuti e la mancanza di rispetto dei loro diritti, di cura delle loro esigenze e dei loro bisogni, di risposta alle loro urgenze di comunicazione con la famiglia e gli affetti, di restare parte attiva del loro nucleo affettivo, familiare, sociale.
Fa seguito alla luminosa premessa un imperativo di efficienza che coinvolge tutti gli ambiti organizzativi e gestionali del sistema carcere e che, certamente condivisibile nei propositi, appare purtroppo, nel panorama attuale - in cui nessun servizio è offerto in modo adeguato per la totale assenza di risorse umane e materiali a fronte del sempre ingravescente sovraffollamento - uno sterile esercizio dialettico.
Si apprezza la aspirazione a superare logiche meramente formali e burocratiche affermando con forza il principio della compartecipazione effettiva di tutti gli operatori alla gestione dei reparti. E tuttavia si devono fare i conti con un sistema al collasso incapace di fornire, come detto, anche una qualità di vita prossima alla decenza.
Nella medesima ottica efficientista, la circolare bacchetta i “pendolarismi ospedalieri per urgenze differibili, che generano disagio, costi e rischi di sicurezza”. E afferma che: “Occorre valorizzare le risorse interne, garantendo continuità delle cure e tempestività delle risposte. Il medico penitenziario deve assumersi la responsabilità di una valutazione rigorosa, contattando direttamente il 118 solo nei casi di effettivo pericolo di vita”.
E di nuovo sbatte, infrangendosi, insieme ai buoni intenti che la animano, sulla situazione reale nella quale gli istituti di pena non sono attrezzati a fornire adeguata assistenza pressoché in nessun ambito medico e devono fare ricorso ai ricoveri esterni ma si scontrano con la grave carenza numerica di operatori assegnati al nucleo traduzioni, ai servizi di scorta e di piantone che l’impossibilita di raggiungere i luoghi di cura anche per chi sia affetto da malattie gravissime e attende giorni, mesi, anni a volte perfino per interventi chirurgici salvavita.
© Riproduzione riservata


