Le differenze tra l’approccio agli alunni con disabilità tra l’Italia e il resto d’Europa. Interventi e nodi. Il ruolo dell’insegnante di sostegno e l’importanza dei “gruppi classe” negli istituti di ogni ordine e grado
L'anno scorso, come docente di sostegno, mi sono trovata ad andare in una scuola superiore in Francia durante un’esperienza Erasmus. Era un liceo professionale con vari indirizzi: l’alberghiero, il tecnico, quello dedicato alla composizione fotografica pubblicitaria e anche una sorta di artistico.
Alla mia domanda rivolta al referente Erasmus su quali fossero gli studenti con disabilità – perché volevo assistere a una lezione per osservare l’approccio dei colleghi francesi – mi è stata data una risposta sorprendente: «Noi non abbiamo disabili».
L’unica alunna con disabilità era una ragazza con disabilità motoria, in sedia a rotelle, inserita nella classe dell’indirizzo artistico.
Ho quindi chiesto dove fossero gli studenti con disabilità sensoriali, intellettive, non solo motorie. La risposta è stata: «Li teniamo nelle scuole private, nelle scuole separate».
Ok.
Il pomeriggio ho partecipato a un’attività proposta da un’associazione che si occupa di persone con disabilità, una delle esperienze previste dal pacchetto Erasmus. Eravamo il “Paolo Borsellino” di Palermo insieme a scuole della Repubblica Ceca, del Belgio e della Germania. L’esperienza consisteva nel basket in carrozzina: volevano mostrarci come una persona con disabilità potesse partecipare a un’attività sportiva, però sempre all’interno di un contesto separato, un recinto fatto «solo di persone con disabilità». Dovevamo sperimentare la «condizione del disabile», capire «come il disabile potesse divertirsi», tra molte virgolette.
È stata un’esperienza illuminante, oltre alla parte pratica in cui ci hanno fatto provare percorsi bendati per simulare la cecità, o attività motorie simulate per comprendere cosa significhi non avere l’uso degli arti.
Il contesto europeo
La riflessione che mi porto dietro ancora oggi è: che esperienza hanno questi ragazzi della socialità, della scuola, della loro formazione? E questo non riguarda solo la Francia. Anche in Gran Bretagna, in Irlanda e in altri contesti – per motivi personali ne sono venuta a conoscenza – non esiste ciò che abbiamo in Italia: la presenza degli alunni con disabilità all’interno delle classi comuni.
Una volta tanto, noi italiani, almeno su questo, abbiamo fatto un passo avanti. In Francia stanno iniziando ora, con grande fatica, a inserire gli studenti con disabilità nelle scuole; ci sono docenti che non hanno idea di come approcciare una disabilità intellettiva o mentale.
Ho chiesto: «Avete una preparazione specifica?». La risposta è stata: «No».
Ci rendiamo conto quindi che, per quanto riguarda l’istruzione degli studenti con disabilità, in Italia non siamo messi così male. Come poi si realizzi davvero la pratica quotidiana, è un altro discorso.
Nonostante la ratifica delle convenzioni sui diritti delle persone con disabilità, in Europa questi diritti vengono spesso considerati marginali, “affare” degli operatori del settore e delle famiglie. Il resto della collettività se ne fa carico fino a un certo punto. Da questo punto di vista, in Italia è stato fatto un lavoro enorme.
Vediamo allora come funziona il sistema italiano. In larga parte operante nella scuola primaria e media, poco alla scuola superiore, da quello che mi è stato raccontato.
In Italia abbiamo un sistema di presa in carico dell’alunno con disabilità che parte talvolta già dalla scuola dell’infanzia e arriva fino al completamento del percorso di studi.
Il primo grande problema, però, è un altro: la tardività o l’imprecisione della diagnosi. A molti di noi è capitato di ricevere diagnosi che non corrispondono allo stato reale del ragazzo quando ti siedi accanto a lui e provi a proporgli determinate attività.
Qui entriamo nel grande nodo burocratico. Il nostro mestiere, più ancora di quello dei docenti curricolari, è afflitto da una quantità enorme e spesso inutile di carta. Ci viene chiesto di fare il GLO (ossia il Gruppo di Lavoro Operativo, un organo previsto nelle scuole italiane per occuparsi dell’inclusione degli alunni con disabilità) a ottobre, ma se sei entrata in classe con una nomina annuale e il ragazzo lo hai incontrato per la prima volta a settembre, in un mese che tipo di osservazioni puoi fare? Che proposte puoi avanzare? Che relazione puoi instaurare? L’inclusione parte già zoppa. Eppure siamo comunque messi meglio del resto d’Europa.
Secondo problema: l’accesso alle classi, soprattutto alle superiori. Chi non è di ruolo e attende la nomina entra spesso a fine ottobre, inizio novembre, quando il programma è già avviato e il ragazzo è rimasto senza supporto per settimane.
Le altre criticità
Terzo problema: il ritardo con cui arrivano le figure attorno al bambino – assistenti all’autonomia, alla comunicazione – fondamentali in molte situazioni.
Il diritto all’istruzione, prima ancora che all’inclusione, viene così gravemente leso. Questo è il quadro di partenza, drammatico, e molti di noi, nonostante tutto, vanno avanti.
Negli ultimi anni è aumentato il numero degli studenti con disabilità. Si tratta di quantità significative che richiedono sempre più il supporto del docente di sostegno. E torna il problema della formazione: molti entrano con la specializzazione – SSIS, TFA – ma molti altri entrano con vecchie domande di utilizzazione, senza sapere cosa significhi davvero lavorare con una persona con disabilità, con uno studente psicotico, o con un adolescente che inizia a manifestare pulsioni sessuali senza filtro.
E allora che fa l’insegnante italiano? Si sbraccia. È il nostro mood.
L’inclusione nella scuola italiana passa attraverso la buona volontà di chi ci lavora: docenti, assistenti, famiglie, enti sanitari quando collaborano.
La scuola italiana vive grazie a persone che vanno oltre il loro mansionario, ma che oggi devono confrontarsi con un numero crescente di studenti con disabilità – più maschi che femmine – con maggiore incidenza di disabilità intellettiva, spesso associate a DSA. Le ASP e le ASL spesso non riescono a identificare precocemente ciò che caratterizza questi ragazzi. Il supporto psicologico è quasi sempre assente.
Molti alunni hanno pluridisabilità. Io seguo un ragazzo con ritardo mentale, disturbi della memoria a breve termine e disturbi d’ansia. Non ho mai potuto parlare con la neuropsichiatra. C’è un difetto di comunicazione che ci rende impossibile sfruttare le risorse che sulla carta esistono, ma che spesso non vengono attivate.
Gli studenti con disabilità vengono ancora considerati come qualcosa da “gestire”: stai lì nell’angolo e non dare fastidio.
Viviamo in un periodo storico in cui l’ego è esasperato, e anche i cosiddetti normodotati sono molto legati al proprio benessere, e così le loro famiglie. Questo rende difficile la convivenza con compagni problematici.
Io lavoro in un alberghiero di un quartiere di Palermo, dove una porta sì e una no c’è qualcuno “in villeggiatura”, come si dice. Ho studenti con genitori in carcere, agli arresti domiciliari, altri con condizioni di povertà estrema, famiglie fragili, orfani affidati a sorelle ventitreenni con tre figli.
Situazioni-limite, ma non rare nei professionali. E lì trovi il maggior numero di studenti con disabilità, spesso legate anche alle esperienze di vita: violenza, abusi, traumi multipli, case famiglia.
Una proposta
L’inclusione concreta richiede un lavoro doppio: verso il basso, con i compagni, per far comprendere che certi comportamenti nascono da vissuti che non possono nemmeno immaginare; e verso l’alto, con il consiglio di classe. Oggi il corpo docente si sta ringiovanendo, chi ha fatto SIS o TFA ha una certa sensibilità. Ma esistono ancora docenti che vedono l’alunno problematico come un intralcio: «Me lo porti fuori? Mi disturba la lezione».
Capita.
E capita anche di essere considerati “dame di compagnia” da alcuni dirigenti.
E poi ci sono episodi sconcertanti: colleghi che, davanti allo studente, dicono «o ti ho semplificato tutto, devi solo mettere la parolina, lo capisce, vero?». E il ragazzo risponde: «Ma vi pare che sono cretino?».
Succede anche questo.
L’inclusione deve tener conto del gruppo classe. E qui si apre un’altra parentesi: io ho lavorato meglio nei tecnici e professionali, dove i ragazzi vivono condizioni di forte deprivazione. Una volta superato il fastidio iniziale, sono più pronti ad accogliere e comprendere perché sanno di non essere “gigli”, direbbe De André.
Diverso è nei licei classici e scientifici, dove la scuola italiana diventa fortemente classista. Nei licei la presenza di studenti con disabilità è bassissima. Spesso i genitori si sentono dire: «È difficile…».
Ma l’insegnante di sostegno a cosa serve, allora?
Le famiglie dei licei vogliono classi “perfette”, ragazzi al top, non “rallentati” da chi ha crisi epilettiche o momenti di difficoltà emotiva. Ma poi questi stessi studenti affrontano altre disabilità nascoste: disturbi alimentari, autolesionismo, attacchi di panico. Di questi non si parla: genera vergogna.
E allora questo quadro, che sembra a tinte fosche, è invece realistico.
Noi docenti di sostegno siamo quelli che aspettiamo alla porta che arrivi il trasporto, che chiamiamo le famiglie, che lavoriamo davvero all’inclusione. L’inclusione sulla carta è bellissima: strutture, fondi, aule attrezzate.
L’inclusione reale la facciamo noi, spesso contro un sistema che non ci supporta.
La didattica inclusiva dovrebbe partire dalla scuola dell’infanzia e accompagnare il ragazzo lungo tutto il percorso, con un dialogo costante tra scuola, servizi, famiglie. Ma spesso questo dialogo non c’è.
L’obiettivo dovrebbe essere permettere a questi ragazzi di raggiungere non solo il successo formativo, ma anche la massima autonomia possibile, e soprattutto una relazione serena con i compagni.
Daniel Pennac nel Diario di scuola scrive qualcosa di bellissimo: ogni strumento suona il proprio strumento, non c’è nulla da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia.
Una buona classe è un’orchestra che prova la stessa sinfonia. Se hai il triangolo che sa fare solo “tin tin”, o lo scacciapensieri che fa “boing boing”, l’importante è che lo facciano al momento giusto, che diventino ottimi triangoli e ottimi scacciapensieri, fieri del contributo che danno all’insieme.
Il piacere dell’armonia li farà progredire tutti. Il problema è che vogliono farci credere che nel mondo contino solo i primi violini.
Questo intervento di Stefania Auci è stato pronunciato al convegno “La Qualità dell'inclusione scolastica e sociale”, organizzato a Rimini da Erickson il 14-15-16 novembre 2025.
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