L’emergenza sanitaria ha inciso gravosamente anche sullo svolgimento dell’esame di abilitazione forense, enfatizzando una situazione che già in tempi di normalità era di particolare disagio per gli aspiranti avvocati.

Infatti, con il decreto del 10 novembre 2020, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 2020, si è comunicato il differimento delle prove dell’esame d’avvocato. Il decreto veniva invero irritualmente anticipato da un post su Facebook del Ministro Bonafede del 5 novembre 2020.

Tale modus operandi merita una breve riflessione. Il decreto è intervenuto solo il 10 novembre, prorogando il termine per l’inoltro delle domande di iscrizione, nonostante già da settembre potesse ragionevolmente escludersi lo svolgimento dell’esame nelle consuete modalità. Inoltre, il ritardo dell’intervento appare ancor più evidente se si considera che il termine ultimo per l’invio delle domande di iscrizione all’esame era fissato all’11 novembre, il giorno dopo la pubblicazione del decreto.

Ecco i problemi

Ciò ha rappresentato un problema sotto molteplici profili: in primo luogo ha svantaggiato coloro che, avendo superato la prova scritta tenutasi nel 2019, nell’incertezza degli esiti dell’orale, hanno inoltrato la domanda “in via cautelativa” anche alla prova scritta successiva; in secondo luogo, ha inciso negativamente sulla stessa organizzazione dei futuri scritti in quanto il numero totale dei partecipanti, computando anche gli iscritti “per cautela”, sarà superiore al numero effettivo.

Sul piano dei contenuti, il decreto ha previsto il differimento limitandosi a disporre, all’art. 1, che le prove scritte si svolgeranno nelle “date che saranno indicate nella Gazzetta Ufficiale IV Serie Speciale del 18 dicembre 2020 (…)” e, all’art. 3, che con “successivo decreto ministeriale, che sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale IV Serie Speciale del 16 marzo 2021, saranno individuate eventuali misure disciplinanti l’accesso e la permanenza alle sedi concorsuali, al fine di garantire il rispetto delle vigenti disposizioni volte a prevenire il contagio da Covid-19”.

Il 16 dicembre è stato comunicato che le prove avranno luogo a partire dal 13 aprile 2021, nelle consuete modalità, senza l’individuazione di alcuna misura alternativa.

Anche se le prove si svolgessero effettivamente in quelle date (con concreto rischio per la salute dei partecipanti) si tratta di tempi evidentemente molto lunghi che espongono gli aspiranti avvocati alla quasi certezza di perdere un anno o più di professione, nonostante, come è noto, il percorso sia, già di per sé, molto lungo e dispendioso.

Discriminati rispetto alle altre categorie

La situazione di ingiustizia sostanziale è enfatizzata dal fatto che per gran parte delle altre categorie sono state previste delle misure alternative, così creandosi un’evidente disparità di trattamento.

Ad esempio, per l’esame abilitativo dei dottori commercialisti il decreto ministeriale n. 661 del 24 settembre 2020 ha disposto, per la seconda sessione dell’anno 2020, lo svolgimento di un’unica prova orale svolta con modalità a distanza. Per gli aspiranti commercialisti, i quali peraltro già godono di una doppia sessione annuale, dunque, correttamente, si è prevista una modifica delle consuete prove d’esame, evitando lo stallo professionale. Per converso, i praticanti avvocati si trovano in balia dell’incertezza. Ciò sorprende perché l’attuale situazione emergenziale avrebbe potuto (e dovuto) rappresentare l’occasione per riformare un esame che già prima del Covid risultava palesemente inefficiente e disparitario.

Nessun’altra professione, infatti, fonda l’abilitazione sul superamento di tre prove scritte e di una prova orale che verte su sei materie differenti. Sul punto, è necessario segnalare che: le prove scritte dell’esame non sono espressione della normale vita professionale, tanto che la maggior parte degli aspiranti avvocati frequenta corsi di formazione (lautamente remunerati) che “insegnano” come redigere dei pareri al solo fine di superare l’esame, molto diversi da quelli confezionati negli studi legali. In più, durante lo svolgimento delle prove si assiste ad un livellamento delle competenze tecniche perché, come è noto, le soluzioni circolano liberamente tra i candidati.

Il terno al lotto della correzione

A ciò si aggiunga che non vi è omogeneità nelle correzioni: ogni commissione adotta dei propri criteri nel selezionare gli elaborati sufficienti. Inoltre, non vi è l’obbligo di indicazione delle motivazioni alla base della bocciatura e la correzione media di un compito, stando ai verbali, è di quarantacinque o cinquanta secondi. Dunque, è lecito pensare che agli elaborati non si dedichi l’attenzione necessaria. E qui si manifesta un altro dato di cui tenere conto: la disparità tra le sedi.

Nelle sedi piccole i canditati sono la decima parte di quelli che sostengono l’esame nelle sedi grandi e quindi beneficiano di una correzione più attenta e dedicata. Sul punto non ci sono responsabilità personali né precise intenzioni: è diverso correggere trecento o tremila compiti nello stesso periodo di tempo.

Alla luce di tali molteplici profili di inadeguatezza dell’esame di abilitazione, l’emergenza Covid dovrebbe rappresentare l’occasione per ripensare un sistema evidentemente inefficiente e, per molti versi, ingiusto. Invece, con diffuso e condiviso stupore, sembrano essere stati respinti tutti i disegni di legge proposti.

Le proposte di modifica bocciate

Un primo disegno di legge, a firma della senatrice Lonardo, aveva previsto un test da 90 quesiti a risposta multipla da svolgersi in un’unica giornata con correzione rapida attraverso il correttore ottico; banca dati con cinquemila quesiti giuridico-deontologici e due sessioni di esame l’anno.

La già menzionata proposta, pertanto, avrebbe risolto quantomeno alcuni dei problemi evidenziati: avrebbe parificato il conseguimento dell’abilitazione a quello di tutte le altre professioni, rendendo l’esame di abilitazione quello che dovrebbe essere: un ultimo controllo sulle competenze già acquisite e abbondantemente valutate durante il percorso universitario e la pratica forense. In più, l’introduzione di un test oggettivo e imparziale avrebbe neutralizzato il rischio di disparità tra commissioni e sedi diverse, mentre la previsione di una duplice sessione annuale avrebbe evitato la stagnazione professionale in caso di primo insuccesso.

Chiuso il sipario sul primo progetto, il secondo, proposto dagli onorevoli Di Sarno e Miceli, suggerisce l’espletamento di un’unica prova scritta, l’atto giuridico, e l’orale con due materie obbligatorie (la deontologia e una procedura) e tre materie facoltative a scelta del candidato; due sessioni di esame all’anno e obbligo di motivazione del voto.

Con un esame siffatto i candidati si cimenterebbero nella redazione di un atto giuridico e quindi potrebbero esprimere le competenze concretamente maturate durante la pratica professionale. La riduzione delle materie dell’orale, invece, consentirebbe agli aspiranti avvocati impegnati a tempo pieno nell’attività forense di dare prevalenza alle materie di esplicito interesse professionale mentre l’obbligo di motivazione neutralizzerebbe il rischio di letture superficiali, garantendo ai candidati l’innegabile diritto di conoscere le ragioni dell’inidoneità.

Purtroppo, anche per la seconda proposta si è incontrata notevole resistenza.

La ragione della bocciatura dei due disegni è comune e può essere sintetizzata nell’asserito “svilimento” che la professione forense riceverebbe da un esame costituto da una sola prova (quiz o atto giuridico) e da un orale ridotto.

La motivazione, invero, lascia perplessi. Ci si domanda quale peculiarità avrebbe la professione forense rispetto a tutte le altre professioni tanto da essere “svilita” dallo svolgimento di modalità d’esame che, lo si ripete, sono proprie di tutte le abilitazioni. Ma, soprattutto, ed è questa la vera domanda, ci si chiede perché un esame più imparziale, oggettivo, rapido e meritocratico sia considerato “svilente” rispetto ad uno con indiscutibili profili di inefficienza e disparità come quello attualmente vigente.

L’indifferenza quasi totale degli avvocati

Peraltro, buona parte degli organi di rappresentanza dell’avvocatura, tranne notevoli eccezioni tra cui l’Ordine degli avvocati di Milano e l’Associazione italiana giovani avvocati (AIGA), hanno mostrato indifferenza a fronte di questa situazione, nonostante abbiano loro stessi ammesso l’indubbia necessità di una riforma. 

In particolare, sia il Consiglio Nazionale Forense (Cnf) sia l’Organismo Congressuale Forense (Ocf) si sono espressi dicendo che l’accesso alla professione forense «non può ridursi soltanto alla disciplina delle modalità di svolgimento dell'esame, ma deve riguardare anche il più ampio contesto del percorso universitario e della formazione del praticante» di cui l'esame è solo il momento conclusivo. Hanno dunque confermato la grave situazione in cui si trova, ad oggi, un laureato in giurisprudenza che intenda intraprendere la professione legale, ma non solo.

Fermo restando che ormai è evidente a chiunque che il percorso di studi vada totalmente ridefinito ab origine, ciò non toglie che è inaccettabile l’attuale posizione rispetto alle proposte di riforma tenuta dagli organi che più dovrebbero avere a cuore il futuro dei loro giovani colleghi.

Alle generazioni che oggi si approcciano all’esame di stato, soprattutto alla luce dell’emergenza sanitaria che si sta vivendo, deve essere garantita una modalità alternativa, più meritocratica, di svolgimento delle prove, che potrà essere anche temporanea in attesa della tanto richiesta riforma universitaria.

Si ritiene quindi che il problema dell’accesso alla professione debba essere risolto nel breve termine con l’impegno, medio tempore, di ridisegnare un percorso di studi che sia ben strutturato dal principio. In altri termini, è vero quanto affermato e cioè che le Università dovrebbero essere in grado di selezionare gli idonei fin dai primi anni di studi. Tale selezione, pertanto, non dovrebbe mai essere lasciata all’ultimo step di prove per l’accesso alla professione da avvocato.

Inoltre, è opportuno spendere qualche parola sulla affermazione fatta dal Consigliere Di Maggio del CNF con riferimento alla previsione contenuta nelle riforme dell’obbligo di retribuzione del praticante. Secondo il Consigliere "Il valore economico del praticante quando arriva in studio è ‘zero' all'inizio, dovrebbero invertirsi i rapporti, poi il suo apporto cresce col tempo".

Premesso che sul tema del compenso sarebbe opportuno aprire un dibattito a parte, desta inedito stupore tale affermazione, fortemente svilente, tra l’altro, dello stesso Sistema Nazionale Italiano di formazione che a coloro i quali valgono zero ha riconosciuto un titolo di laurea.

Alla luce di quanto rilevato, è indubbio che si debba adottare una riforma di ampio respiro che intervenga sull’iter delle professioni forensi sin dall’inizio. Tuttavia, ciò non esclude ma anzi conferma la necessità di trovare una soluzione anche nel breve termine che consenta all’attuale generazione di non essere ulteriormente penalizzata.

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