La riforma dell’ordinamento giudiziario balla il valzer: appena sembra aver fatto un passo avanti, eccone due indietro. Eppure, tutti sulla carta convengono sul fatto che la riforma sia necessaria, applaudendo le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha ricordato la riforma nel suo discorso di insediamento.

Ma, malgrado i tentativi della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ogni volta che un pezzo della riforma sembra andare a posto, ecco che se ne scombinano altri e riaprono la discussione su tutti.

Tra tutti i fronti aperti di portata generale – dal sorteggio temperato alle porte girevoli, fino ai nuovi illeciti disciplinari per applicare il decreto sulla presunzione di innocenza – il più curioso è quello che riguarda una materia ai più oscura: il diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari.

Apparentemente una tecnicalità, ha invece riacceso nei magistrati una diffidenza atavica rispetto ad ogni corpo estraneo al loro ordine.

Che cosa prevede la riforma

I consigli giudiziari sono dei piccoli Csm locali: organi collegiali presenti nei 26 distretti di corte d’appello, composti da magistrati togati eletti nel territorio, dal presidente della corte d’appello e dal procuratore generale della corte d’appello, cui si aggiungono un avvocato per foro e un professore universitario come membri laici con diritto di tribuna (parziale o a tutte le sedute, a seconda dei regolamenti interni ai singoli consigli).

Il compito principale - accanto a quello di dare pareri su questioni tecniche e di organizzazione - è di rendere ogni quattro anni valutazioni di professionalità dei magistrati, necessarie per gli avanzamenti di carriera, che si svolgono ogni quattro anni. 

La riforma Cartabia, nella sua versione ancora non approvata, recepisce uno degli emendamenti del Pd e introduce il voto degli avvocati e dei professori universitari nei consigli giudiziari, anche per le valutazioni di professionalità dei magistrati. Il voto però, sarà «unitario» (cioè uno solo per la categoria forense) e con preventivo parere del Consiglio dell’Ordine. Inoltre, la riforma prevede che il Csm ogni anno individui e comunichi, ai Consigli dell’ordine interessati l’elenco dei nominativi dei magistrati che l’anno successivo saranno valutati, così da consentire l’acquisizione di eventuali segnalazioni degli avvocati.

Il parere contrario dei magistrati

Questa previsione è stata interpretata come vessatoria da parte della magistratura e in generale ritenuta dal parere del Csm una soluzione che rischia di comprimere l’indipendenza della magistratura.

Nel parere si legge che il Csm valuta «positivamente l’introduzione del cd. “diritto di tribuna”, dei membri laici, nell’ambito delle valutazioni di professionalità, sottolineando come la previsione, delimitando il diritto alla sola partecipazione alla discussione, riduca le preoccupazioni connesse al fatto che un membro laico che continua a svolgere la professione forense nel distretto in cui opera il magistrato in valutazione, possa incidere sul sereno svolgimento della funzione giudiziaria».

Tradotto: può essere utile che gli avvocati partecipino e argomentino, ma il fatto che possano votare nelle valutazioni di professionalità incide sulla serenità del magistrato nel lavoro. Perchè, in fondo, si ritiene che l’avvocato continui a indossare la toga del difensore nel processo anche quando siede in un organo giurisdizionale in cui è chiamato a svolgere una funzione diversa. 

Questo no formalizzato è il frutto di una chiusura alla soluzione ben radicata nella categoria e spiegata anche in audizione alla commissione Giustizia dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia: «L'apporto utilissimo dell'avvocatura non si realizza se si chiamano gli avvocati a votare, in costanza di esercizio della professione forense e quindi senza essere sospesi come avviene per il Csm, sull'operato del magistrato che il giorno prima hanno incontrato nell'aula giudiziaria o che incontreranno il giorno dopo, con una commistione di ruoli, di naturale contraddittore processuale e di valutatore di colui che ha rigettato una loro domanda, non ha accolto una loro tesi, o che ciò farà domani per dovere d'ufficio». 

A dirlo con parole meno cesellate è stato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, in un’intervista al Fatto Quotidiano: «E’ inaccettabile: non si vede perché a valutarci debba essere chi non fa parte della nostra categoria, così si intacca l'autonomia e la terzietà del magistrato, visto che gli avvocati nei Consigli giudiziari dovrebbero giudicare magistrati che lavorano nel loro stesso distretto e coi quali si trovano quotidianamente a interloquire. Questa previsione ha quasi l'odore della punizione».

Le ragioni opposte

Una così netta chiusura delle toghe ha provocato effetti anche nell’avvocatura. Il tema, infatti, è stato toccato anche durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario forense durante il quale la presidente del Cnf, Maria Masi ha ringraziato la ministra per «l'attenzione rivolta al tema del funzionamento dei consigli giudiziari» e ha spiegato di non condividere le ragioni del dissenso dei magistrati, «fondate su ipotetici conflitti d'interessi che nella proposta governativa difficilmente si configurerebbero, tenuto conto della proposta del voto unitario e del preventivo parere reso dai consigli dell'ordine, a differenza del pregiudizio e delle riserve che invece nelle loro dichiarazioni sono facilmente ravvisabili».

La tesi degli avvocati, infatti, è che i conflitti ipotizzati da Gratteri e dall’Anm non si configurino perchè a votare materialmente nel consiglio giudiziario non sarà il singolo avvocato membro secondo il suo giudizio che sarebbe in effetti influenzabile dalla sua esperienza diretta nel foro. Il voto unitario con parere del Consiglio dell’ordine fa sì che il voto sia espressione dell’intera categoria forense del distretto e non di un singolo condizionabile.

Come ha spiegato la ministra nella stessa sede, infatti, il senso della norma è quello di «offrire elementi di riflessione aggiuntivi, provenienti da chi osserva l'operare del giudice da un diverso punto di vista. Anche in questo, magistrati e avvocati potranno collaborare più intensamente nei consigli giudiziari».

Sulla stessa linea si è espresso anche il vicepresidente del Csm, David Ermini (che è come tutti i vice membro laico e incidentalmente anche avvocato): «La partecipazione dell'avvocatura nelle articolazioni territoriali del sistema di autogoverno, in posizione non più soltanto simbolica, andrebbe accolta con serenità e minor preoccupazione, in quanto denota l'esistenza di una stretta colleganza tra magistratura e avvocatura nell'interesse del buon funzionamento della giustizia». 

Il risultato politico

A margine delle ragioni tecniche, spicca un dato politico: le toghe, pur in profonda crisi istituzionale e provate dagli scandali, rimangono diffidenti rispetto a qualsiasi iniziativa esterna che ne metta in discussione il primato.

A generare lo scontro attuale, infatti, sono due spinte opposte. In forza del dettato costituzionale che fa della magistratura un potere «autonomo e indipendente», ogni tentativo di riforma – soprattutto parlamentare e politico – è stato vissuto dall’ordine giudiziario come un tentativo di condizionare il ruolo delle toghe.

Dall’altro lato, la politica si è sentita chiamata in causa come titolare del potere legislativo nell’intervenire per riformare una magistratura che, negli ultimi anni e dopo gli scandali Palamara e della loggia Ungheria, ha mostrato di essere in profonda crisi istituzionale. 

Proprio gli scandali, infatti, hanno portato all’emersione del fatto che il cuore del problema riguardi i meccanismi di nomina e quelli di valutazione di professionalità: i due settori che più sono stati intaccati dal fenomeno del correntismo e dai riflessi di autotutela della categoria.

Tuttavia sia il Csm che l’Anm, messe sotto pressione, hanno sì confermato la necessità di una riforma, ma hanno anche rivendicato il diritto e dovere che sia prima di tutto una autoriforma. Ovvero, che parta e implicitamente si esaurisca all’interno del potere giudiziario stesso. In questo senso si spiega anche una così netta chiusura al voto - pur minoritario - dell'avvocatura nei consigli giudiziari. 

Il contrasto ha due soluzioni. Quella di rottura prevede che il parlamento eserciti la funzione legislativa e riformatrice anche contro il parere, obbligatorio ma non vincolante, del Csm. La ministra Cartabia, invece, sta scegliendo quella di mediazione e si muove con tutte le accortezze perchè non si determini uno strappo istituzionale tra politica e giustizia.

Tuttavia, il tempo della mediazione sta per finire: i tempi tecnici per approvare la riforma stringono e il tema del voto degli avvocati nei consigli giudiziari è considerato rilevante da molte forze politiche di maggioranza, considerando che è anche uno dei quesiti referendari che andranno al voto in primavera.

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