E’ bastata un’agenzia stampa per mandare in agitazione i magistrati: il Partito democratico ha proposto di inserire nella riforma dell’ordinamento giudiziario (il cui termine per gli emendamenti scade giovedì 27 maggio) la previsione che «i componenti avvocati e professori universitari dei consigli giudiziari abbiano il diritto di intervento e anche di voto sulle deliberazioni inerenti alle valutazioni di professionalità dei magistrati». Risultato: nella riunione di domenica il comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati ha votato una delibera proposta dal gruppo di Unicost contraria alla proposta in cui si stigmatizzano la «generale sfiducia verso il corpo giudiziario» e la disarmonicità rispetto all’ordinamento, inoltre «il diritto di voto agli avvocati nelle valutazioni di professionalità determinerebbe un grave vulnus all’indipendenza e alla serenità di giudizio dei magistrati».

In effetti, se la proposta verrà presentata e approvata si tratterebbe di una piccola rivoluzione copernicana nel mondo della magistratura. I consigli giudiziari, infatti, sono dei piccoli Csm: organi collegiali presenti nei 26 distretti di corte d’appello e sono composti da magistrati togati eletti nel territorio e dal presidente della corte d’appello e dal procuratore generale della corte d’appello, cui si aggiungono un avvocato per foro e un professore universitario come membri laici con diritto di tribuna (parziale o a tutte le sedute, a seconda dei regolamenti interni ai singoli consigli). Il compito principale - accanto a quello di dare pareri su questioni tecniche e di organizzazione - è di rendere ogni quattro anni valutazioni di professionalità dei magistrati, necessarie per gli avanzamenti di carriera. Per questo includere soggetti terzi rispetto al potere giudiziario all’interno dei consigli è sempre stato un tabù: secondo le toghe, infatti, le valutazioni dei magistrati devono essere fatte solo da altri magistrati e non da componenti laici.

I dati

Eppure, una delle principali critiche mosse all’attuale funzionamento del sistema di valutazione dei consigli giudiziari è che di fatto non viene “bocciato” nessuno. Le valutazioni possibili sono tre: positiva, non positiva e negativa. Le ultime statistiche disponibili, reperibili sul sito del Consiglio superiore della magistratura, mostrano come la percentuale di magistrati promossi con valutazione positiva dal 2008 al 2016 sono in media il 98,2 per cento. Il picco più alto nel 2015, con il 99,5 per cento di valutazioni positive, il più basso nel 2012 con il 97,1 per cento.

L’attuale sistema è entrato in vigore con la riforma del 2006: la legge apparentemente fissa criteri molto rigidi sulla valutazione, ma nella pratica ha prodotto una sorta di promozione generalizzata.
Il risultato è che, unico caso tra i paesi con ordinamento simile a quello italiano, praticamente tutti i magistrati raggiungono il livello massimo di carriera, stipendio e pensione. I dati mostrano che, prima di questo metodo, il vertice della carriera arrivavano solo 1,1 per cento dei magistrati in servizio, mentre con la riforma ci arriva circa il 23 per cento. 

La ragione di tale cortocircuito, tuttavia, starebbe in come le norme sono state riformate: prima del 2006, le valutazioni negative non erano mai automaticamente causa di “dispensa dal servizio”, ma tendenzialmente ritardavano solo di qualche anno la carriera. Il nuovo sistema, invece, prevede che,dopo due valutazioni negative, scatti la dispensa. Una conseguenza che sarebbe considerata inaccettabile ed eccessiva e che dunque produrrebbe il profluvio di valutazioni positive, in assenza di una maggiore gradualità dei giudizi.

Gli argomenti dell’Anm

Il dibattito durante il Cdc di domenica è stato necessariamente breve ed è arrivato alla fine dei lavori, con una inversione dell’ordine del giorno che ha permesso la votazione del documento presentato da Unicost con un confronto durato poco più di un’ora.

Nel documento approvato a maggioranza si legge che la proposta del Pd sottintende “l’asserita inidoneità dei consigli giudiziari di essere giudici terzi ed imparziali in occasione delle valutazioni dei colleghi, traducendosi nella negazione dello stesso concetto di autonomia dell’organo di governo locale».

La contrarietà alla presenza e il voto degli avvocati è stata giustificata con due ragioni: così si minerebbe «all’indipendenza ed alla serenità di giudizio dei magistrati nel quotidiano esercizio della giurisdizione e nella dialettica processuale»; inoltre non esiste reciprocità perchè «tale partecipazione non sarebbe nemmeno bilanciata da una analoga presenza dei magistrati in seno ai consigli dell’ordine” e non sono previste «incompatibilità di sorta per gli avvocati che facciano parte anche dei consigli dell’ordine».

Una linea, questa, che ha convinto la maggioranza dei membri dell’Anm, ad eccezione di Magistratura democratica. In particolare Silvia Albano è intervenuta duramente contro il documento, contestando entrambe le argomentazioni. «Oggi commemoriamo Giovanni Falcone: pensare che i magistrati si comportino diversamente perchè hanno paura di un membro laico che assiste o partecipa con un voto sul totale dei componenti del consiglio giudiziario è offensivo nei confronti di chi esercita la professione con etica e rettitudine», ha detto Albano ricordando anche che al Csm un terzo dei membri è laico per previsione costituzionale. Inoltre è intervenuta anche sul fronte dell’opportunità di una delibera così oppositiva: «Soprattutto in questa fase storica, una chiusura corporativa sulle valutazioni di professionalità è un autogol: parliamo dell’autogoverno come casa di vetro ma temiamo che alle valutazioni di professionalità abbiano diritto di tribuna gli avvocati». Quanto al tema della reciprocità, Albano ha ricordato che gli avvocati ovviamente non hanno valutazioni di professionalità ma che nel procedimento disciplinare forense il pubblico ministero viene avvisato dell’inizio del procedimento, ha diritto di parteciparvi prendendo conclusioni e ha facoltà di impugnare ogni decisione.

Ad oggi, tuttavia, nessun gruppo associativo si è espresso ufficialmente in favore del voto ai laici. Oggi il testo base della riforma dell’ordinamento giudiziario depositato alla Camera prevede all’articolo 3 di rendere permanente solo il diritto di tribuna dei membri laici, che già sarebbe però previsto dai regolamenti di circa un terzo dei consigli giudiziari italiani. Sul diritto di tribuna, l’unica ad essersi detta favorevole è Md. Tutti gli altri gruppi, invece, sarebbero contrari a che un non magistrato assista a come si svolge la valutazione di professionalità.

Che il tema sia controverso, tuttavia, lo dimostra lo scontro avvenuto a Bari a dicembre 2020, quando il consiglio giudiziario ha approvato a maggioranza una modifica di regolamento per impedire ai laici di partecipare alle sedute in cui si effettuano valutazioni professionali o disciplinari sui magistrati, scatenando polemiche e dimissioni degli avvocati.

La mossa della politica

Le toghe hanno dunque letto come un attentato alla loro indipendenza la mossa del Pd di voler introdurre non solo il diritto di tribuna ma anche di voto per i membri laici e il timore è che sulla scia dei dem possano convergere anche i Cinque stelle. Il tema, infatti, era stato sollevato anche due anni fa quando l’allora guardasigilli Alfonso Bonafede aveva paventato la stessa ipotesi, tornando sui suoi passi in seguito alla levata di scudi dell’Anm. La posizione del Pd è gradita anche all’Unione camere penali, che tra le sue proposte di emendamento al ddl penale ha inserito anche la responsabilità professionale dei magistrati. «I giudizi e le valutazioni di professionalità ogni quattro anni sono puramente formali», ha detto il presidente Giandomenico Caiazza, chiedendo una maggiore responsabilizzazione della magistratura, con una giurisidizine che deve essere «frutto dell'interazione con avvocatura e accademia, chiamati a intervenire su giudizi di professionalità».

Se l’emendamento del Pd arrivasse, dunque, la questione potrebbe aprire un nuovo scontro tra toghe e parlamento.

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