Per riformare l’elezione del Consiglio superiore della magistratura (Csm) c’è chi propone il sorteggio. Perché? Come dobbiamo intendere la proposta?

Il sorteggio delle cariche è un sistema di scelta praticato già nella Grecia antica, dove circa 600 incarichi che costituivano l’amministrazione pubblica erano assegnati per estrazione a sorte tra tutti i cittadini. Il che si suole chiamare democrazia.

Ma sul “tutti”, attenzione, perché erano esclusi gli stranieri, i meteci, nonché i lavoratori manuali, che nella proporzione di tre a due erano schiavi, non liberi. Tra quei “tutti” chi avesse oltre trent’anni poteva proporsi; la carica durava un anno non rinnovabile, ed era sottoposta a una serie di controlli e rendiconti.

Il sistema si intrecciava con quello delle elezioni – le cariche militari ad esempio erano elettive: non era certo tra gli estratti Pericle, rieletto generale (stratega) per più di vent'anni – e aveva una chiara valenza “democratica”, giacché favoriva la partecipazione, se non universale, ampia e corale, affidando la scelta al caso (alla sorte, al fato).

Democrazia e aristocrazia

In questo senso, come ha mostrato anni fa un brillante studioso, Bernard Manin, se l’estrazione è democratica, si può dire per contrasto che l’elezione è aristocratica – o, se si preferisce il termine, elitaria: si scelgono i migliori, c’è chi si candida, si espone, si esibisce.

È una distinzione quella tra sorteggio come democrazia e elezione come aristocrazia, ben chiara ai classici, da Aristotele a Montesquieu a Max Weber. Quando però si afferma la rappresentanza politica, tra Sette e Ottocento, prevale l’idea che le cariche debbano essere sostenute da un consenso, un consenso che premia il merito e la capacità, e dunque seleziona i migliori, le élite. Nel momento poi in cui il corpo elettorale si amplia, raggiunge i molti o i tutti, tutti sono al proscenio.

Ma, la cosa era ben chiara ai padri della politica da Guicciardini a Rousseau, il popolo è ben capace di giudicare idee, uomini e fatti, ma non perciò di governare. Si pensi alle giurie popolari, appunto scelte dalla sorte tra tutti i cittadini: in quel caso, sotto la guida “tecnica” dei magistrati, si suppone che tutti possono esprimere un giudizio su un evento criminoso che ha ferito l’ordine sociale, o la morale condivisa.

Non è così nelle scelte politiche e di governo, evidentemente. Allora il meccanismo elitario si fa “democratico” – se si preferisce: il meccanismo democratico si fa elitario – si costruiscono nuovi meccanismi della scelta, i partiti, le candidature, la campagna elettorale, le procedure elettorali. E di estrazione a sorte non è più il caso di parlare.

Appellarsi al caso

La si ritrova occasionalmente, ma rispondendo a una diversa logica. Il sorteggio può avere una valenza virtuosa se avviene in corpi ristretti, tra eguali, tra una élite già selezionata in cui tutti sono egualmente passibili di essere scelti.

La scelta, non la sorte, rimane il criterio principale, ma proprio al fine di facilitarne l’esercizio in alcune fasi l’estrazione a sorte può servire a correggere le distorsioni presenti nelle competizioni elettorali, le cricche, le cordate, le intese sotterranee.

Così avviene nelle repubbliche medievali italiane, che sempre ossessionate dalle fazioni (i Montecchi, i Capuleti...) studiano ogni sorta di contromisura, a cominciare dal podestà straniero. In sostanza, l’estrazione testimonia di un insuccesso, di un limite della politica, quando la società politica non è immediatamente in grado di esercitare una scelta virtuosa, di eleggere in base a merito e competenze: i meccanismi della scelta non funzionano, e ci si appella al caso.

Se ne trova traccia anche oggi, ad esempio in certe fasi dei concorsi universitari – procedura tra quelle che più godono di orrida fama, un giorno sarebbe da capire perché. L’idea è ancora quella di contrastare le “cricche” accademiche; e poiché, proprio per la natura delle selezioni non tutti gli “eguali” del corpo sono parimenti degni, allora si combinano i due criteri: la commissione è estratta a sorte tra quanti sono stati prima eletti, oppure, simmetricamente, è eletta, ma tra alcuni soggetti scelti dalla sorte.

Il che ricorda il sistema adottato nella repubblica di Venezia per l’elezione del Gran consiglio: in quel caso, erano estratti a sorte i nomi di coloro che nominavano i candidati, i quali venivano poi votati subito dopo, senza che ci fosse il tempo di condurre “campagne elettorali”.

Se ben pensato (ma non sembra che oggi lo sia), può essere questo il caso della scelta dei membri del Csm, dove tanto si parla di indebolire le “correnti”, le cordate, gli accordi sotterranei.

Ma il sospetto per le pratiche oscure può coinvolgere l’intera attività politica in quanto tale. L’antipolitica accompagna la politica da sempre (fin dai greci?). I movimenti populisti contemporanei l’hanno solo depurata di ogni consapevolezza istituzionale, portandola al diapason della rozzezza. Allora si torna a parlare di sorteggio, eventualmente elettronico, “popolare”, “tra tutti i cittadini”.

Non sono mancate proposte simili; ad esempio nel 2013, all’apice del qualunquismo populista, c’è stato una specie di Casaleggio-Grillo belga, di cui un editore si è prestato a offrire i pensamenti, che spiegava al pubblico italiano «perché votare non è più democratico». 

Il pensiero di Spinelli

L’idea non è nuova. E vi si possono mescolare pulsioni assai diverse, che alla diffidenza per la politica di massa uniscono nostalgie elitarie. Può sorprendere, ma in fondo non dovrebbe, trovarne traccia anche nella cultura comunista, o finanche democratica.

Il federalista Altiero Spinelli – appunto un intellettuale ex-comunista –  nel 1948 scriveva: «Bisognerebbe diffondere il metodo del sorteggio fra un certo numero scelto di uomini, nonché quello delle elezioni indirette. Più si spezza l’elezione di massa, più si restituisce nobiltà alle istituzioni libere. E senza nobiltà esse non possono prosperare».

L’idea doveva circolare, se nel 1950 la ritroviamo per bocca di Ernesto Rossi, un altro azionista, la cui polemica verso il monopolio dei partiti era diretta verso il suffragio universale, «da sostituirsi da sistemi come “la cooptazione”, “gli esami da parte di commissioni di esperti”, “la nomina di coloro che hanno già ricoperto cariche importanti”, “la sorte”». Rossi giudicava quest’ultimo come il sistema «migliore di tutti».

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