Come tutti gli acronimi, per pochi Dap significa qualcosa. Per quella nicchia, composta da magistrati, direttori di carcere, detenuti, polizia penitenziaria e dirigenti ministeriali, però, il vertice del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è la poltrona più ambita all’interno del ministero della giustizia.

Formalmente si tratta di uno dei quattro dipartimenti – insieme a quello dell’organizzazione giudiziaria, per gli affari di giustizia e per la giustizia minorile e di comunità – che formano il ministero di via Arenula. Nei fatti, però, è un luogo nevralgico per una serie ragioni.

La prima è di natura economica: il Dap è il dipartimento che amministra la maggior quantità di risorse, con un bilancio 2021 di circa 3,1 miliardi di euro, che equivalgono al 35 per cento del bilancio del ministero della Giustizia. Un volume imparagonabile a quello degli altri dipartimenti, e la cifra è cresciuta progressivamente con un aumento quasi del 20 per cento rispetto al 2017, quando il bilancio era di 2,6 miliardi. I fondi vengono spesi per la gestione del personale amministrativo e dei magistrati; polizia penitenziaria; edilizia penitenziaria e manutenzione; accoglienza, mantenimento e reinserimento dei detenuti. Questo significa che il vertice del Dap è il terminale che sovrintende a spese e investimenti, con il loro effetto a cascata. Il dipartimento, infatti, gestisce la vita carceraria dei circa 60 mila detenuti e a quella professionale dei circa 40 mila agenti della polizia penitenziaria. Il suo vertice è anche a capo del corpo e dunque è equiparato a un comandante generale, così che il suo stipendio è tra i più alti dentro l’amministrazione: 320mila euro l’anno (ma prima del tetto sugli stipendi toccava i 550mila euro l’anno).

La struttura penitenziaria, infatti, è piramidale e non decentrata: il ministero fissa gli obiettivi a cui il Dap da attuazione pratica attraverso le direttive e l’allocazione dei fondi, declinandola attraverso tre direzioni generali e i provveditorati regionali.

La seconda ragione, invece, è più sottile. Il carcere è nevralgico per lo Stato perchè è un luogo di trattativa, dove la moneta di scambio sono le informazioni. Il dipartimento che lo amministra quindi diventa il crocevia da cui queste arrivano, passano e vengono smistate ai vari mondi contigui. Informazioni che possono essere solo “voci” interne, ma anche vere e proprie intercettazioni e informative che provengono dai detenuti nel regime di “carcere duro”, il 41bis e che provengono da un reparto appositamente formato dentro la polizia penitenziaria. Il Gom, il gruppo operativo mobile, risponde direttamente al capo del Dap che per questo dialoga con la direzione nazionale antimafia e le sue articolazioni, i vertici delle procure e anche i servizi di intelligence.

L’ultimo livello, infine, è strettamente legato al regime di carcere duro disciplinato dal 41bis. Dal dipartimento, infatti dipende l’organizzazione della detenzione dell’alta sicurezza: ogni decisione sui cosiddetti gruppi di socialità (come la formazione dell’elenco delle compatibilità tra gruppi criminali nelle strutture), la mobilità di questi detenuti tra le strutture, con trasferimenti e allocazioni. Un potere enorme all’interno della galassia penale e penitenziaria, che rende il Dap un punto nevralgico.

Una buona dimostrazione di come questo potere possa generare cortocircuito è rappresentata dal caso delle dimissioni del vertice, Francesco Basentini, in seguito alle proteste in carcere e alle cosiddette “scarcerazioni facili” durante il Covid nel 2020.

All’epoca il consigliere del Csm e magistrato antimafia Nino Di Matteo aveva raccontato che l’allora ministro Alfonso Bonafede aveva offerto a lui il posto al capo del Dap, ma che – dopo il suo sì – il ministro gliela aveva negata per darla a Basentini. Di Matteo aggiungeva  anche che, contestualmente al ripensamento di Bonafede, sarebbero arrivate informazioni dal Gom alla procura nazionale antimafia secondo cui «la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e altri stragisti, all’indiscrezione che potessi essere nominato capo del Dap era che “se nominano Di Matteo è la fine”». 

L’allusione è che Bonafede abbia fatto il passo indietro perchè temeva reazioni mafiose: lui ha sempre negato di aver ricevuto pressioni di qualsiasi genere. Tuttavia, non è mai stato chiarito né perché Di Matteo abbia aspettato due anni – dal 2018 al 2020 – per raccontare i fatti nè la ragione della ritrattazione di Bonafede.

La nomina di Renoldi

Proprio la rete di potere che ruota intorno al Dap spiega in parte le ragioni della polemica intorno alla nomina del consigliere di Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza vicino a Magistratura democratica, Carlo Renoldi. Un nome lontano dalla ribalta mediatica e considerato di rottura: Renoldi, infatti, supera la regola non scritta per cui storicamente il ruolo di capo del Dap è stato rivestito da procuratori, molti dei quali con un passato nell’Antimafia. Inoltre, è portatore di una visione “progressista” in favore della riforma del 41bis e carcere ostativo e, nel corso di un convegno del 2020, ha utilizzato parole controverse nell’indicare l’esistenza di una parte di antimafia «militante arroccata nel culto dei martiri».

La scelta della ministra è arrivata come un fulmine a ciel sereno, dopo le dimissioni del magistrato antimafia Dino Petralia, ufficialmente per dedicarsi alla famiglia. Ufficiosamente, invece, fonti interne al Dap parlano di contrasti proprio con il ministero.

La scelta di Renoldi, infatti, è diventata subito un caso politico e anche di politica giudiziaria. Dalla maggioranza sono piovuti attacchi da parte di Lega e Movimento 5 Stelle, a cui si è associata anche Fratelli d’Italia. Anche da parte della magistratura associata e del Csm – chiamato a votare la collocazione fuori ruolo del collega – si sono alzate voci critiche: una delle più critiche, quella di Nino Di Matteo che ha parlato di «delegittimazione grave perfino del Dipartimento che ora è chiamato a dirigere e quindi i suoi appartenenti». Ai più attenti, inoltre, è suonato come critico anche il silenzio della Direzione nazionale antimafia.

Nessuna richiesta di ripensamento, però, è servita: la ministra Marta Cartabia ha fatto valere il fatto che quella al Dap è una nomina fiduciaria e in questo ha trovato la sponda anche del presidente del Consiglio, Mario Draghi. Nonostante le contrarietà iniziali, infatti, il consiglio dei ministri ha votato all’unanimità la nomina.

L’intento di questa scelta da parte della ministra sembra quello di voler cambiare il paradigma sul carcere: dal focus principale sul carcere duro a quello dei detenuti ordinari, che sono oltre il 90 per cento. Una visione, questa, che torna anche nella lettera che Renoldi ha indirizzato alla ministra nei giorni della polemica: la piaga della mafia non può «far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato». 

«Un edificio in fiamme»

Eppure, anche su questa visione di carcere esistono varie posizioni nel variegato mondo della giustizia. Il consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, che durante il voto su Renoldi aveva definito la realtà carceraria “un edificio in fiamme”, dice che «il carcere è il luogo dal quale lo Stato parla alla criminalità. Per realizzare la scommessa sociale della rieducazione, però, servono regole e sicurezza, altrimenti si regalano spazi che vengono assorbiti dalla gerarchia criminale. E oggi l’unica zona regolata è quella del 41bis, il resto sta scivolando nell’anarchia». Per questo indebolire il 41bis rischia di allargare una crisi del carcere ancora più grande. 

Inoltre, esiste anche il rischio inverso: distogliere l’attenzione dalle sezioni 41bis potrebbe trasformarle in “reparti incubatori” in cui testare misure detentive ancora più restrittive, che poi si diffondono a cascata nelle carceri miste in cui ci sono anche detenuti comuni. L’esperienza carceraria, infatti, insegna che nelle strutture dove sono presenti detenuti al 41bis tutto tende a prendere quell’impronta, anche per chi a quel regime non è sottoposto.

La sintesi è impossibile e apre davanti al neonominato Renoldi una sfida: gestire un grande potere, bilanciando le pressioni che ne derivano con la volontà riformatrice della ministra per un un «carcere dei diritti».

 

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