Lo sciopero della fame non può essere un modo per ricattare lo Stato, è la posizione dell’ex magistrato Piercamillo Davigo.

Il tema è tornato d’attualità perché il detenuto anarchico, Alfredo Cospito, condannato per strage e in carcere da dieci anni, sta digiunando da più di cento giorni per protestare contro il regime di carcere duro a cui è stato sottoposto e ora rischia la vita.

«Non conosco nel dettaglio il suo singolo caso, ma constato che in passato anche alcuni detenuti per gli attentati dell’Ira sono morti in carcere a causa di scioperi della fame. Ovviamente nessuno auspica che finisca così, tuttavia lo stato non può cedere ai ricatti», è il ragionamento del magistrato. Del resto, è la legge stessa che impone allo stato la fermezza. Per esempio, in caso di sequestro a scopo di estorsione, i pm devono sequestrare i beni del rapito e dei suoi familiari, esponendo la vittima a gravi rischi ma con lo scopo di evitare di scendere a patti coi sequestratori: «Il risultato è stato il crollo dei sequestri di persona. La linea della fermezza paga sempre».

Nulla contro lo strumento dello sciopero della fame in quanto tale, «che è un’arma di lotta seria, per come lo utilizzò Ghandi per esempio. Nel nostro paese invece in generale è una buffonata, come nei casi degli scioperi della fame a staffetta, che sono sostanzialmente delle diete».

L’interrogativo concreto che pone il caso Cospito, però, è se la vita umana non valga comunque più di un principio. Domanda sbagliata, secondo l’ex magistrato: «Il rispetto per la vita umana non c’entra. Perché lo sciopero della fame abbia senso bisogna che i valori in discussione siano commisurati all’entità del rischio. La vita e il regime di 41 bis non possono stare sullo stesso piano. Contro un regime detentivo si può fare richiesta di revoca oppure istanza di grazia al presidente della Repubblica».

Secondo Davigo, infatti, il 41bis è uno strumento che va considerato sulla base dell’obiettivo che raggiunge: impedire a chi ha commesso delitti gravissimi di mantenere contatti con il contesto associativo criminale.

Per spiegarlo, cita le parole che gli disse il collaboratore di giustizia Angelo Epaminonda nei primi anni Ottanta: la forza di una organizzazione criminale all’esterno e proporzionale alla forza che ha dentro al carcere. «Chi appartiene a queste organizzazioni non deve avere poteri dentro il carcere, perché altrimenti rischia di continuare ad averlo anche fuori». Epaminonda, infatti, gli raccontò che uno degli omicidi a che aveva ordinato era quello dell’avvocato del boss Francesco Turatello, il quale portava gli ordini di Turatello fuori dal carcere e venne ucciso dagli altri associati perché ritenevano che il vecchio capo fosse in galera da troppo tempo per avere una visione chiara di come agire.

«Epaminonda mi spiegò che Turatello aveva ancora un primato d’onore ma non più di giurisdizione sulla sua organizzazione criminale, inoltre l’avvocato che veicolava gli ordini all’esterno ci metteva del suo, quindi lo uccisero per dare un segnale al boss. Basta questa storia per capire l’utilità di provvedimenti come il 41bis, che mostrano ai criminali che contro lo stato sono perdenti». A dimostrare che la fermezza paga è un dato, confermato durante l’apertura dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio: dai 1700 omicidi del 1992, oggi il numero è sceso a 310.

Rispetto allo sciopero della fame Cospito, quindi, Davigo è pragmatico: l’obiettivo del detenuto dovrebbe essere quello di ottenere la revoca della misura se ritiene che nel suo caso specifico non sia coerente, ma non di lasciarsi morire per protestare contro uno strumento fondamentale per la lotta alla criminalità organizzata.

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