L’anarchico Alfredo Cospito sta andando verso la morte in carcere ed è in sciopero della fame da oltre cento giorni per protestare contro la misura del “carcere duro”, il regime del 41 bis a cui è sottoposto. Ho sottoscritto l’appello per la modifica della misura a suo carico per una ragione: l’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, deve essere applicato. La Carta, infatti, è la prima legge dello stato, quella su cui si fonda il nostro stato di diritto, non un suggerimento che va seguito a piacere.

Non è un caso che il 41 bis venga gergalmente chiamato “carcere duro”, non per la prevenzione o per la sicurezza, ma duro. Rappresenta, infatti, l’esasperazione del sistema e così come viene applicato è uno strumento punitivo, molte caratteristiche del quale hanno poco o nulla a che fare con la finalità per cui è concepito, ovvero evitare la partecipazione del detenuto all’associazione criminosa di cui era membro attivo da libero.

Per questo credo che il 41 bis vada cambiato in modo sostanziale in alcune parti della sua formulazione e nelle modalità con cui viene applicato, che sono in contraddizione con il precetto costituzionale.

La tutela della collettività attraverso l’impedimento dei contatti tra il detenuto e il suo contesto criminale di riferimento, infatti, può avvenire senza disumanizzare chi sta scontando la pena.

Della realtà concreta di come il 41 bis viene applicato e di come ciò sia spesso incompatibile con il dettato costituzionale esiste ampia letteratura. In particolare lo dimostra il rapporto della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi del 2018. Basti un esempio, che viene proprio dal caso Cospito: in forza del regime di 41 bis, gli è stato vietato di tenere in cella le foto dei genitori defunti, perché viene richiesto il riconoscimento formale della loro identità da parte del sindaco del paese d’origine. Davanti a questo, a mio parere trova spazio la disobbedienza civile dello sciopero della fame.

A chi sostiene che sia un’indebita arma di ricatto rispondo con la constatazione che la vita in gioco è quella di Cospito, che sta vivendo sulla sua pelle la sofferenza e il rischio di morire. La domanda da fare è una sola: c’è una persona che, se continua lo sciopero della fame, muore. La salviamo o no? Non importa che si sia messo da solo in questa condizione, la domanda rimane la stessa. Se una persona libera si getta nel fiume per suicidarsi, la si lascia annegare o ci si tuffa per salvarla? La risposta a questa domanda viene prima di ogni coerenza giuridica o di sistema e io rispondo che prima si salva una vita, poi si riflette sul resto.

Credo peraltro che la morte di Cospito sarebbe contraria agli interessi di chi ritiene che il 41 bis sia una misura compatibile con la Costituzione e alla domanda “lo salviamo?” risponde a forza di distinguo: se Cospito morisse, infatti, se ne farebbe martire.

Nel merito invece, che fare per far sì che il detenuto sospenda lo sciopero della fame? Le risposte di giustizia possono essere molteplici. Una sarebbe quella di ricorrere agli articoli 146 o 147 del codice penale, che prevedono che l’esecuzione della pena venga differita nel caso in cui il detenuto sia in condizioni di salute incompatibili con la detenzione il primo, oppure sia in condizioni di grave infermità il secondo. Anche queste disposizioni, come il 41 bis, sono una legge dello stato. Oppure si potrebbe modificare il regime carcerario: il Garante per i detenuti, per esempio, ne chiede il trasferimento in una struttura idonea.

(testo raccolto da Giulia Merlo)

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