Il governo ha deciso di porre la fiducia sul ddl civile e il Senato ha approvato con 201 si e 30 no. Si chiude così, velocemente e senza intoppi, il primo passaggio in Aula del disegno di legge che deve riformare il processo civile in modo da ridurre la durata dei processi del 40 per cento in cinque anni.

Tutto liscio, dunque, per la ministra della Giustizia Marta Cartabia: palazzo Madama ha recepito i 24 emendamenti del governo e ha approvato in modo compatto il testo. Ora passerà in commissione Giustizia alla Camera per l’approvazione finale, sulla quale non dovrebbero esserci sorprese. La riforma prevede alcune modifiche rilevanti per quanto riguarda la semplificazione del rito; la creazione di un tribunale unico per la famiglia che accorpi tribunale dei minori e sezioni specializzate del tribunale ordinario; il potenziamento dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie e un più stringente regime di improcedibilità per l’appello.

La quadra politica è stata trovata grazie a un minuzioso lavoro in commissione Giustizia al Senato (orchestrato dalla trasversalità delle relatrici Anna Rossomando del Pd, Fiammetta Modena di Forza Italia e Julia Unterbergher dell’Svp), mentre le critiche più dure si registrano sul fronte tecnico. L’avvocatura in particolare, con le note del Consiglio nazionale forense e poi dell’Unione nazionale camere civili, ha criticato le modifiche di rito e l’anticipazione in prima udienza di una serie di oneri e di preclusioni. Il Consiglio superiore della magistratura, pur avendo approvato parere favorevole, ha rilevato alcuni profili critici legati soprattutto alle assunzioni per l'ufficio del processo, che affiancherà il lavoro dei giudici, che dovrebbero essere stabili e non temporanee per consentire la riduzione dell’arretrato.

La settimana prossima, invece, arriverà al Senato per il via libera definitivo del più controverso ddl penale, che contiene anche la riscrittura della norma sulla prescrizione che tanto ha fatto traballare la maggioranza. Anche in questo caso è quasi certa la fiducia per velocizzare i passaggi, ma il testo è considerato chiuso e l’accordo è solido anche con i Cinque stelle.

In questo modo Cartabia si avvicina a portare a compimento due delle tre promesse contenute nel Pnrr in materia di giustizia: approvare entro la fine del 2021 le leggi di delega al governo per le riforme del civile e del penale. Ora manca solo il ddl di riforma del Csm e poi il trittico sarà completo, come anche il successo del governo Draghi, che potrà dire di aver risolto un rebus su cui sono caduti i due governi Conte precedenti.

Politicamente, i dati che emergono sono due. Quello di breve periodo riguarda la solidità del governo sotto la guida di Mario Draghi. Una volta resosi conto delle contrapposizioni sui temi legati alla giustizia, il premier ha sempre fatto da sponda con la ministra sposando il cosiddetto “metodo Cartabia”: molti tavoli di concertazione per far decantare lo scontro, poi una sintesi finale del governo e, dopo eventuali ulteriori limature, una decisa accelerazione per chiudere definitivamente la partita. Le riforme penale e civile sono considerate troppo necessarie per lasciarle allo scontro anche ideologico tra partiti, per questo il duo Draghi-Cartabia ha scelto di forzare e velocizzare il tempi, scommettendo sul fatto che nessun partito della maggioranza si sarebbe sfilato.

Il Quirinale

Il dato di medio periodo, invece, riguarda la sfida politica più delicata del 2022: l’elezione del prossimo presidente della Repubblica.

La ministra Cartabia è considerata una candidata perchè incrocia in sè una serie di caratteristiche: è donna e incarna la suggestione della prima presidente di genere femminile; è gradita e gode della fiducia del premier Draghi, oltre che dell’uscente Sergio Mattarella; in questi anni ha limato il suo profilo in modo da elevarsi a figura tecnica equidistante dalle parti.
La contesa è complicata, perchè sono ancora in campo le due ipotesi privilegiate del Mattarella bis, sostenuto in particolare dal Partito democratico e dal Movimento 5 Stelle, e di Mario Draghi. Se loro due si sfilassero, Cartabia è considerata da molti come il terzo nome utile, non tanto perchè goda del supporto di una o più forze politiche, ma perchè il suo profilo garantirebbe sinergia con il governo e non sposterebbe altri equilibri. Il suo è un profilo che, pur non essendo il favorito di nessuno, nessuno scontenta apertamente.

La prima regola per i “quirinabili” è quella di non venire candidati da nessuno e di mantenere un profilo bassissimo in attesa dei giorni fatali del voto. Esporsi, attirando la grancassa mediatica, significa farsi bruciare. Per questo il passaggio così liscio e soprattutto silenzioso dei ddl penale e civile può essere annoverato tra i successi di Cartabia. Non solo perchè il suo ministero sta per licenziare due riforme della giustizia attese da anni, ma anche perchè lei ci è riuscita facendole quasi scomparire dal dibattito pubblico. Unica sbavatura, lo scossone del ddl penale lo scorso luglio intorno alla modifica della prescrizione, su cui i Cinque stelle hanno tentato di fare muro ottenendo solo alcune modifiche.

Un aiuto determinante a Cartabia, tuttavia, è arrivato da palazzo Chigi: Draghi l’ha sostenuta anche nei momenti di tensione con la maggioranza, avallando il suo operato e blindandolo con la fiducia sia in Consiglio dei ministri che in aula. Certamente la scelta del premier è stata dettata prima di tutto dalla necessità di approvare nei tempi previsti uno dei pilastri delle riforme promesse all'Unione europea con il Pnrr. Tuttavia in questi mesi ogni mossa viene letta in ottica quirinalizia e, in questa chiave, la sinergia tra la presidenza del Consiglio e via Arenula – pur se già nota – non può passare inosservata.

 

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