Giorgia Serughetti in un suo editoriale su Domani sul caso Grillo ha scritto che «non è lecito dubitare della parola di una donna basandosi sulle sue abitudini di vita, sul suo abbigliamento o sul modo personale con cui reagisce a quanto subito».

Se si riferisce alla necessità che in un giudizio penale si mettano da parte i pregiudizi di ogni ordine e grado dice cosa ovvia: per esperienza diretta, già oggi il principio è acquisito nella legge ordinaria e nella Costituzione.

Se invece Serughetti sottilmente sostiene che debba esistere una sorta di credibilità “a priori” di una donna, come di un qualsiasi altro teste vulnerabile quando riferisca di un reato di violenza sulla sua persona quasi a titolo di risarcimento per le ingiustizie e le discriminazioni  passate, io non condivido.

Mi spingo oltre: dico che per una volta condivido l’accorata difesa di Marco Travaglio per l’amico Beppe di cui sostiene il diritto pieno a difendere il figlio, sia pure con argomenti migliori (ma non è che si possa essere sempre eleganti: il processo penale è spesso una discesa agli inferi dell’animo umano).

Io credo che dovremmo essere grati in un certo qual senso a Beppe Grillo: il suo sfogo è penoso, volgare ma a me più che di protervia sembra intriso di disperazione cieca.

Mi è capitato di vedere lo stesso giorno, e mi ha colpito dolorosamente un vecchio film di Barry Levinson Sleepers: raccontava magistralmente la vita rovinata di «quattro giovani coglioni» come li definirebbe Grillo rinchiusi in un riformatorio per una stupida bravata finita in tragedia e che subiscono ogni genere di violenza da cui le loro esistenze vengono marchiate.

Pena e disagio

Ha ragione Travaglio: un padre sa che ci sono notti brave da cui la vita di un figlio non evaderà più. Non si tratta di familismo amorale, io penso che ogni figlio pretenda che il padre gli creda e quando ha paura è al padre che si rivolge.

Mi è capitato di ricordare su Linkiesta la storia tragica e bellissima del genitore di una ragazza che aveva sterminato la sua famiglia, la moglie ed il figlio piccolo e che avrebbe probabilmente ucciso anche lui se lo avesse trovato in casa. Eppure questo padre non ha abbandonato la figlia, è andata a trovarla per venti anni in carcere aspettando che finisse la sua pena, e l’ha salvata, o almeno le ha dato la speranza e il silenzio per non giudicarla.

Dico la verità, a me Grillo ha creato pena e disagio.

Un padre politicamente corretto avrebbe sicuramente detto, lo sguardo pensoso e serio, che il figlio ha diritto ad essere considerato un presunto innocente e che la giustizia, in cui bisogna avere fiducia ( anche nel post-Palamara) sicuramente avrebbe chiarito: poi, magari, lo avrebbe preso da parte e gli avrebbe detto di prepararsi al peggio, che sì certo, lo sapeva che aveva fatto una fesseria, «roba da quattro coglioni in vacanza», ma che non avrebbe avuto scampo perché come diceva Manzoni nell’Italia di oggi come in quella della peste «Il buon senso c'era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune».

Ho cercato di capire il mio disagio e lo riferisco: il “senso comune”, o se si preferisce, il pensiero, ideologico e tecnico assieme, oggi dominante nei tribunali è la diretta derivazione di movimenti  “Metoo”, codici rossi e convenzioni internazionali per cui quando la sorte mette di fronte ad un imputato “un soggetto vulnerabile”, donna, minore, una vittima di mafia, un inquinato, i processi sono una  salita di sesto grado.

La difesa non ha di fronte una semplice “parte offesa” ma “la vittima” e già la definizione evoca la necessità di un necessario risarcimento che il processo dovrà inevitabilmente offrire.

Quando si processavano le streghe nel Seicento erano le donne sul banco delle accusate, le si sottoponeva a tortura perché confessassero e le rare volte che non avveniva la sventurata veniva giustiziata lo stesso perché la sua resistenza era prova dell’aiuto del demonio. Non c’era scampo.

Di fronte al dito levato della vittima e alle sue parole, spesso la difesa non conta, perché se non le si credesse o peggio ancora si provasse a dubitare delle sue accuse, allora le si infliggerebbe un’ulteriore sofferenza, la “vittimizzazione secondaria”.

Nell’attuale struttura del processo la vittima è isolata in una sorta di bolla denominata “audizione protetta” che la isola dalle altre parti e le consente di poter parlare, o meglio di essere ascoltata tramite le domande che le porrà il solo giudice, non la difesa, un’eccezione in un sistema accusatorio basato sull’esame incrociato diretto dei testimoni condotto dalle parti.

Il diritto di difesa

Presumo che questo riguardo sia giusto, che ci sia un’esigenza sacrosanta di tutela di chi ha subito una violenza bestiale, ma consentitemi di dire che ciò si fa a scapito del diritto di difesa, gli imputati di reati contro i soggetti vulnerabili hanno meno diritti degli altri.

Grillo non ha queste finezze, a lui bastava un avviso di garanzia – o come nel caso un avviso di chiusura delle indagini - per sapere che ormai il processo era inutile. Oggi avverte la condanna è stata pronunciata, forse cerca di buttarla in caciara come se potesse sovvertire con la sua rabbia l’ordine delle cose, come gli riusciva in politica solo qualche anno fa.

Ma stavolta è assai più difficile, e lo sa perché il clima è quello creato da lui e dai suoi fedeli, quando condannavano alla gogna per un semplice avviso di garanzia. Oggi suo figlio è indagato, domani potrà essere condannato ad una pena pesante, entrare in un carcere.

A qualcuno il suo gesto potrà sembrare inutile ed arrogante, ma Paolo Mieli e Giuliano Ferrara, menti tra le più lucide, hanno espresso i loro dubbi, il secondo scatenando addirittura una reprimenda della moglie, femminista storica.

Il tema lacera ma forse più che avventurarsi in un giudizio può essere utile rievocare una storia che ha una qualche analogia e che divise in due, negli anni Ottanta, la sinistra militante, femministe contro reduci del Sessantotto.

Il caso del professore e dell’alleva

Un rapporto sessuale tra un professore ed una sua allieva (maggiorenne), lui un ex leader politico della sinistra extra parlamentare, lei una studentessa bella ed indipendente.

Le cronache e poi le pagine delle sentenze riferirono di un rapporto particolarmente focoso che lasciò segni sui corpi di entrambi: per l’uomo era stato “ travolgente”, per la ragazza no e lo sintetizzò in  un biglietto («ecco a cosa serve la sua cultura») e dopo qualche giorno lo denunciava per violenza sessuale.

Forte fu la mobilitazione dei vecchi sodali dell’uomo: Mario Capanna denunciava l’attacco all’eredità delle lotte studentesche del Sessantotto, così come altrettanto massiccia fu la partecipazione delle associazioni femministe.

Dopo un iter processuale complesso e diversi mesi di detenzione il professore, condannato una prima volta è stato assolto perché il fatto non costituisce reato.

La formula indica che l’uomo non aveva consapevolezza della violenza inferta, secondo la prospettazione del difensore, Raffaele Della Valle, che definì l’incontro «una commedia degli equivoci» in cui ognuno dei protagonisti viveva un film diverso.

Era una sentenza non dell’800 ma pronunciata nell’Italia “da bere” degli anni Ottanta, rampante, felice e di pochi scrupoli, non certo un’Italia bacchettona e provinciale.

Aveva torto quella sentenza? Forse. Oggi sarebbe con ogni probabilità assai diversa ma credo che nessuno possa dire quanto più giusta.

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