*Dirigente di ricerca - Consiglio Nazionale delle Ricerche 

Vorrei tanto essere ottimista, ma i dati non lo permettono.

Iniziamo con le note abbastanza positive. Per quanto riguarda il disposition time (DT, rapporto fra procedimenti pendenti e definiti per 365), c’è una fondata speranza che gli obiettivi del PNRR possano essere raggiunti. Il DT è un indicatore che beneficia di una “compensazione” fra gli uffici giudiziari a livello nazionale, e questo è molto importante per il suo raggiungimento, perché è noto, ma forse mai sufficientemente considerato, che le prestazioni degli uffici giudiziari italiani sono molto diverse fra loro.

Si va, ad esempio, da un DT di 1347 giorni di Vallo della Lucania ai 258 giorni di Savona. I dati a giugno 2023 mostrano come nel settore penale vi sia stata una diminuzione del 29,3% del DT a livello nazionale, quindi un valore anche al di sopra dell’obiettivo di -25%.

Per il raggiungimento dell’obiettivo PNRR in ambito penale, si tratterebbe pertanto di non peggiorare troppo l’attuale situazione da qui a giugno 2026. Nel civile si registra una riduzione del 19,2% del DT, dovremmo arrivare ad un -40% nel giugno 2026. Si può essere moderatamente ottimisti, immaginando, come spesso succede, un auspicabile “rush finale”.

L’arretrato civile

Il grande problema è l’arretrato civile, che non permette “compensazioni” fra gli uffici. Attualmente nei tribunali l’arretrato (procedimenti pendenti da oltre 3 anni) è diminuito del 19,7%, dovremmo arrivare a -65% a dicembre 2024 e a -90% nel giugno 2026. Nelle corti di appello, l’arretrato (procedimenti pendenti da oltre 2 anni) è diminuito del 33,7%, dovrebbe essere -55% entro dicembre 2024 e -90% nel giugno 2026. Purtroppo, non vedo proprio come sia possibile raggiungere questi obiettivi. E, da quanto è dato sapere, anche il Governo ne è consapevole, e pare sia intenzionato a rinegoziarli con l’Unione Europea.

Francamente sorprende come sia stato possibile fissare questi obiettivi sull’arretrato, considerando che già nel 2019 era noto come si concentrasse per circa il 25% in soli sei tribunali, (Roma, S.M. Capua Vetere, Napoli, Bari, Salerno, Catania), e sommandone solo altri 11 (Messina, Foggia, Cagliari, Castrovillari, Potenza, Nocera Inferiore, Nola, Lecce, Latina, Vallo della Lucania, Vibo Valentia) l’arretrato arrivasse ad oltre il 50% di tutti gli uffici.

Ancora più marcate le disparità territoriali sull’arretrato ultra-biennale delle corti di appello, dove nel 2019 le sole corti di Roma (22,51%) e Napoli (21,16%) rappresentavano il 43,67% di tutto l’arretrato nazionale.

In buona sostanza, era ben evidente fin da subito che gli obiettivi di riduzione dell’arretrato, per le sue caratteristiche, apparivano difficili e che comunque per tentare di raggiungerli si sarebbe dovuto mettere in campo delle iniziative importanti, ben calibrate e concentrate su un numero limitato di uffici.

Invece, come è stato scritto, per la riduzione del DT e dell’arretrato l’investimento di gran lunga più cospicuo è stato la costituzione dell’Ufficio per il processo (UPP), prevalentemente composto da laureati in giurisprudenza, che dovrebbero fornire assistenza ai giudici e porsi come “ponte” con le fondamentali attività di cancelleria che, non dimentichiamolo, sono altrettanto importanti per il buon funzionamento dell’ufficio.

L’ufficio del processo

Confesso che non ho mai capito come l’idea di “ufficio per il processo” dovesse e potesse funzionare, e come avrebbero potuto dei giovani laureati in giurisprudenza incidere in maniera così significativa sulla produttività degli uffici, nonostante tutta la loro buona volontà. Mi pare che i fatti mi diano tristemente ragione.

Dai primi dati raccolti in modo poco sistematico tramite interviste, l’ausilio degli addetti all’UPP sembra dare discreti risultati in Corte di Cassazione, dove effettuano una prima analisi del procedimento, e in alcuni uffici di primo grado dove riescono a dare un significativo contributo nei numerosissimi procedimenti di protezione internazionale che, per loro natura, si prestano meglio ad essere analizzati dagli addetti UPP.

In molti altri uffici la confusione regna sovrana ed i risultati ne sono la conferma. Molti addetti all’UPP se ne sono andati, del primo reclutamento di 8.233 funzionari, ben 2168 (pari al 26%) si sono dimessi; fra l’altro ciò avviene dopo un indispensabile, e non sempre efficacissimo, periodo di formazione, in questo modo non solo il personale non c’è più ma si è anche sprecato il tempo per la sua formazione.

Stante la situazione, quali interventi si possono immaginare oltre a quelli indicati da Castelli? Intanto occorre necessariamente rinegoziare gli obiettivi relativi all’arretrato.

I nuovi obiettivi dovrebbero essere realistici basati sui dati disponibili e quindi concentrare gli sforzi su azioni concrete, di possibile impatto soprattutto sulla riduzione dell’arretrato, scordandosi l’eventuale apporto che potrebbe venire dagli addetti dell’UPP, ma verificando le iniziative, e ce ne sono, già intraprese dai tribunali o dalle corti di appello che hanno dato risultati soddisfacenti. I dati devono essere approfonditi e letti con attenzione e competenza.

Per esempio, da quanto è dato sapere, il DT delle corti di appello in ambito penale ha avuto risultati positivi grazie soprattutto alla Corte di Appello di Napoli che ha aumentato in maniera notevole le sentenze di prescrizione (Sic!), con un peso sui procedimenti definiti che dal 30% e arrivato al 52%.

Certamente nel breve termine lo sforzo deve essere diretto nei tribunali e nelle corti maggiormente in sofferenza per cercare di raggiungere gli obiettivi, senza però dimenticare che i problemi di eccessiva durata dei procedimenti e quindi dell’arretrato richiedono interventi più ponderati, non dettati dall’emergenza, o caratterizzati da reclutamenti temporanei o da soluzioni organizzative fantasiose, forse belle a dirsi, ma poco pragmatiche e molto complesse da realizzare.

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