Leggo sul Domani del 4 febbraio un articolo di Federico Ferrero dal titolo “Il puro gusto di uccidere dei Killer della Uno Bianca”.

Una lettura interessata, perché sono stato il legale dei familiari delle vittime in una vicenda che ha segnato un’esperienza traumatica e, come dirò irrisolta, della mia vita professionale e dunque mi avvicino sempre con curiosità e attenzione alla riflessione sui crimini compiuti dalla banda.

Devo dire però che le due pagine dedicate all’argomento mi hanno deluso profondamente: una ricostruzione sommaria, con numerose inesattezze, frutto di un approccio superficiale alla complessità della vicenda criminale.

E’ un racconto tutto e solo strumentale alla tesi proposta: inutile chiedersi cosa c’era dietro a questo gruppo di poliziotti che terrorizzarono l’Emilia-Romagna per ben 7 anni, dal 1987 al 1994.

Il richiamo alla “banalità del male” - un utilizzo eccentrico della categoria, proposta da Hannah Harendt, per segnalare come il male si annidi anche nella routine obbediente al potere criminale dello Stato - si traduce nella banalità della spiegazione proposta: i protagonisti sarebbero solo serial killer assetati di sangue e di denaro.

 Ridotta la militanza di estrema destra di Roberto Savi a una casuale presenza nei primi anni settanta nel Fronte della gioventù di Rimini – il cui leader riconosciuto era Nestore Crocesi, coinvolto nelle indagini su Ordine nero (quell’organizzazione, lo rilevò Gianni Flamini nel suo volume “il partito del golpe”, i cui adepti in maggioranza vestivano una divisa); ignorata l’adesione all’estrema destra dei due fratelli Alberto e Fabio, accertata nei processi ; reso caricaturale l’ascendente del loro padre che risulta diversamente essere stato militante attivo della Repubblica sociale e che durante il periodo, per come raccontava vantandosi in famiglia “andava a caccia di ebrei e li cospargeva in testa una croce con catrame bollente”,  rimarrebbe solo da chiedersi come mai il descritto fenomeno psicopatologico potesse coinvolgere tutti e tre i fratelli (Roberto e Alberto, tra l’altro, con moglie e figli).

Se consideriamo il periodo più  efferato tra il 1990 e il 1991 (14 morti e decine di feriti) -  assalti ai campi nomadi e corrispondenti ferimenti e uccisioni, omicidi di extra comunitari che transitavano per strada, fino alla strage dei carabinieri del Pilastro del 4 gennaio 1991, che porta lo stesso segno, visto che la pattuglia presidiava una scuola nella quale erano ospiti duecento extracomunitari, che era stata fatta oggetto di attacchi da alcuni malavitosi locali – il guadagno dell’intera banda è irrisorio, pari a 1 milione quattrocento mila lire mensili.

Aggiungiamo l’assalto con esplosivo a un ufficio postale nel centro cittadino, terrorizzando e ferendo il centinaio di pensionati in attesa, con un guadagno pressoché inesistente e le rapine sanguinarie, tutte caratterizzate da un’enorme sproporzione tra il guadagno, la violenza usata e il rischio assunto.

Insomma uno stragismo diffuso, intervallato da un misterioso viaggio di Roberto Savi nel febbraio del 1990 a Kinhasa, capitale dello Zaire dove si trattenne due giorni!

Il modello di buona amministrazione e di integrazione sociale della città di Bologna e della Regione Emilia Romagna entrò in crisi e sembrò disgregarsi sotto quei terribili crimini: oggetto di attacchi sempre più frequenti su tutti i media locali e nazionali.

La spiegazione di tutto può essere la sete di sangue dei poliziotti?

Viene citato il depistaggio di un brigadiere dei carabinieri Macauda, personaggio oscuro, per origini, relazioni e azioni compiute, rispetto all’omicidio di due giovanissimi carabinieri Cataldo Stasi e Umberto Erriu, avvenuto nel 1988 alla periferia di Bologna: in realtà i depistaggi compiuti da costui furono tre, ma non vennero mai svolti approfondimenti, liquidando frettolosamente la vicenda come una scelta calunniosa compiuta per avere (sic!) un titolo di encomio. E che dire del depistaggio del Sisde cinque giorni dopo la strage del Pilatro che attribuiva il delitto a “un gruppo di nomadi slavi”?

Per i crimini commessi dai Savi furono condannate decine di persone in processi diversi, prima della loro scoperta (non i Santagata, come viene scritto, perché era in corso il dibattimento per la strage del Pilastro quando i Savi furono arrestati e furono in conseguenza prosciolti).

Nessuno ha mai compiuto una riflessione sull’accaduto giudiziario, nella fretta di chiudere un capitolo, enorme almeno quanto la scoperta della banda dei poliziotti: è un’ubbìa complottarda cercare di capire se dietro alle collaborazioni, rivelatesi false, che aiutarono l’esito di quei processi si nascondeva qualcosa di diverso da una deformazione sistemica nella valutazione critica delle loro deposizioni da parte di magistrati superficiali?

Ancora. Come è noto, i crimini della uno bianca si intrecciarono con la loro rivendicazione da parte della sigla “Falange armata” (dietro la quale, è stato accertato anche da una sentenza emessa in questi giorni dal Tribunale di Reggio Calabria sulla “‘ndrangheta eversiva”, si nascondeva un organizzazione fatta di 16 agenti del Sismi secondo le rivelazioni fatte dall’ambasciatore Fulci, già direttore del Cesis): il periodo nel quale furono compiuti questi delitti tra il crollo del muro, la fine della prima Repubblica e il parto della seconda non sembra dunque solo una pura suggestione cronologica.

La loro scoperta nel 1994 fu del tutto casuale: Ferrero propone una descrizione della cattura di Fabio Savi inesatta, come si può notare dal libro scritto dagli autori dell’arresto, Baglioni e Costanza: l’auto notata nei pressi della filiale banca che presidiavano e che seguirono fin sotto casa non apparteneva a Fabio Savi e l’incontro con costui,  giunti sul luogo, fu del tutto casuale ( da ciò tutti gli interrogativi che hanno sempre accompagnato quella cattura).

Taccio su molto altro che meriterebbe riflessione.

Sulla vicenda si possono manifestare ovviamente varie opinioni, ma trovo inaccettabile affrontarla e proporla ai lettori del Domani, senza conoscere fino in fondo l’accaduto.

La risposta di Federico Ferrero

Un articolo di giornale, per quanto lungo, sarà sempre sommario. Che un’analisi rifletta l’opinione di chi scrive (traduco liberamente l’accusa di “strumentalità”), purché onesta intellettualmente, mi pare il minimo. L’obbligo di chi scrive non è la redazione di un comunicato in cui si presentano asetticamente tutte le teorie, senza alcun vaglio di attendibilità. Semmai, non si dovrebbe contravvenire all’obiettività – il che ovviamente non significa non sbagliare, ma valutare in coscienza informazioni e fatti.

Che nessuno abbia “mai compiuto una riflessione sull’accaduto giudiziario” mi sembra quantomeno ingeneroso nei confronti delle decine di libri e delle centinaia, anzi migliaia di articoli dedicati, negli ultimi 25 anni, non tanto alla banda della Uno bianca quanto ai cosiddetti “misteri della Uno bianca”. Che hanno avuto molta più cittadinanza rispetto alla ricostruzione accertata dalle sentenze definitive pronunciate contro i Savi e i loro tre compari. Se farvi affidamento e mettere in dubbio l’esistenza di mandanti occulti, secondi livelli e intrighi di palazzo significa vedersi affibbiare la patente di sempliciotto, in questa circostanza la accetto di buon grado. Non posso che augurarmi che la magistratura accolga al più presto questa messe di elementi di fatto – nel processo penale quelli servono, le congetture rimangono fuori dal dibattito – che promettono di svelare, anche agli sprovveduti come me, ciò che davvero capitò in quegli anni di orrore.

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