«Dietro la Uno bianca ci sono la targa, i fanali e il paraurti. Basta. Nient’altro». Sono le parole più citate di Fabio Savi, uno dei condannati all’ergastolo per i fatti della Uno bianca. Non sono bastate. Né quelle, né la piena confessione di 103 azioni criminali che terrorizzarono Emilia e Romagna, in un climax di ferocia insopportabile, tra il 1987 e il 1994. Non c’è stata ammissione o spiegazione che abbia placato il bisogno di trovare motivazioni “altre”, per una delle vicende italiane più tragiche degli ultimi cinquant’anni. Che costò l’esistenza in vita a 24 persone, la salute e la serenità ad altre centinaia.

E sì, la ricerca può avere un senso: la naturale inclinazione a non accontentarsi delle motivazioni più semplici – per cui più l’evento è grave, più ponderosa dev’essere la sua origine – rende comprensibile che si resista ad accettare che la banda della Uno bianca sia stato uno dei più sanguinosi e tragicamente efficienti tra i fenomeni di criminalità comune, nato e cresciuto in un contesto anonimo, gestito nel privato di una famiglia.

Poliziotti sull’uno bianca

Ciò che sconcertò e avvilì prima, e alimentò sospetti dopo, fu scoprire che tre dei quattro capisaldi della banda fossero poliziotti, e che agenti di polizia fossero anche tre dei compagni di ventura, assoldati per singole azioni. Il dubbio, alimentato anche dalle ritrattazioni e dalle dichiarazioni contraddittorie di quegli assassini dal senso morale completamente obliterato, che agirono impunemente per anni, gabbandosi di tutti i pool interforze, è che non possano aver agito indisturbati senza coperture o infiltrazioni. Senza che qualcuno di più influente possa aver avallato la loro scia di reati, magari per spalleggiare una strategia terroristica. Magari sfruttando le loro condotte per altri fini.

Eppure più la si osserva, più la storia della banda della Uno bianca prende le sembianze di un disgustoso compendio della banalità del male. Quando ancora non avevano un nome collettivo per la stampa, tre fratelli venuti su in una cascina a Villa Verucchio, provincia di Rimini, si erano ritrovati a considerare l’idea «di un secondo lavoro», come avrebbe raccontato in una deposizione agghiacciante la moglie di Roberto Savi, Anna Maria Ceccarelli. Solo che l’idea scaturiva da due poliziotti impiegati alla questura di Bologna, Roberto e Alberto; più uno mancato solo perché miope, Fabio. E il mestiere cui avevano pensato per arrotondare lo stipendio non era solo fiscalmente irregolare: erano reati di sangue. Rapine e attentati con l’esplosivo.

Gli inizi

Fabio Savi, nell’unica intervista televisiva concessa vent’anni fa, raccontò la scintilla della banda senza muovere un sopracciglio, come si rammenta una vacanza al mare. Lui faceva il meccanico, era stato fregato da un fornitore disonesto che lo aveva mandato gambe all’aria. Era sul lastrico e ce l’aveva col mondo.

Suo fratello maggiore, Roberto, con lo stipendio da operatore della squadra mobile, faticava ad arrivare alla fine del mese. Tutto lì. «Per scherzo, per gioco», successe che tre padri di famiglia iniziassero a dirsi che avrebbero potuto usare le armi per rimpinguare il conto corrente e far stare meglio loro stessi e chi dovevano mantenere, a patto che non si facesse male nessuno. E si ritrovarono a progettare il primo colpo: la rapina al casello di Pesaro. Tentata e riuscita il 19 giugno del 1987: bottino, il controvalore attuale di 1.500 euro.

Nei primi mesi di attività, i Savi non sparavano. Resisi conto di quanto fosse semplice farsi consegnare soldi di casellanti, però, ci presero gusto: in due mesi, misero a segno dodici rapine. Puntavano le armi e se ne andavano con la cassa. Ma spesso erano spiccioli, sicché si decisero ad alzare il tiro con un’estorsione, pianificata ai danni del titolare di un concessionario di automobili a Rimini.

Quella volta, spararono: la loro vittima aveva avvertito, ironia della sorte, la polizia di Rimini e si era portata dietro il sovrintendente Antonio Mosca, per cogliere i malviventi sul fatto. Sul cavalcavia dell’autostrada vicino a Cesena, però, la banda si accorse della trappola e sparò, furiosamente. Ferì Mosca, che morì dopo quasi due anni di agonia.

La miccia

Il battesimo del fuoco, sempre per bocca di Fabio Savi, fu quello che fece vincere ogni residua paura ai tre sodali, e innescò un meccanismo di avidità e megalomania attizzato dal senso di impunità, in due elementi – Roberto e Fabio – che, col senno di poi, nutrivano in sé forti tratti di disturbo.

Roberto con connotazioni narcisistiche, declinate anche nell’esaltazione per le armi e la violenza, e lievitate in maniera patologica con sentimenti di rivalsa nei confronti del prossimo e di una vita non ritenuta all’altezza dei propri desideri. Fabio, egualmente solitario ma anche più remissivo e introverso, era tuttavia protagonista di esplosioni di rabbia anche più truculente, incapace come era di tollerare i suoi fallimenti nella vita e, da criminale, qualunque disturbo o sfida alle sue volontà. Sulle personalità dei Savi si sono spesi criminologi, psichiatri e pure scritte tesi di laurea: in una di queste, si dipingono i fratelli l’uno come «un cobra, psicopatico, calcolatore, freddo, manipolatore, incantatore»; l’altro alla stregua di un «pitbull, sociopatico, istintivo, che risponde agli attacchi e agisce per frustrazione».

Di certo, almeno per un po’, nessuno avrebbe sospettato di una famiglia di poliziotti. E, se fosse capitato, da dentro avrebbero potuto sorvegliare e semmai sviare le indagini.

Dal 1988, i Savi si dedicarono a svaligiare le Coop, con clienti e personale dentro. Niente furti, solo rapine ad armi spianate. E morti: guardie giurate, portavalori. Il 20 aprile di quell’anno, i primi carabinieri uccisi: si chiamavano Cataldo Stasi e Umberto Erriu. Pagarono con la vita un controllo di un veicolo in un parcheggio a Castelmaggiore. I fratelli spararono loro in faccia, con la sfrontatezza dei terroristi consumati dal mestiere, prima di svignarsela. Per loro fortuna, la corte penale passò anni a giudicare estranei, incastrati da un brigadiere che calunniò persone innocenti manomettendo le prove. Un depistaggio i cui motivi lasciarono effettivamente perplessi i magistrati, ma che non si riuscì mai a collegare ai Savi stessi perché, evidentemente, non era stato congegnato per proteggerli.

Esecuzioni

I Savi si muovevano, come direbbe la criminalistica anglosassone, hiding in plain sight: usavano come nascondiglio la luce del sole. Erano un camionista e due agenti di polizia, fratelli, giocoforza incensurati, esperti di fucili e pistole. Conoscevano a menadito il territorio, le indagini, avevano accesso a informazioni riservate.

Ascoltavano le conversazioni sulle frequenze delle forze dell’ordine e sfruttavano anche quel vantaggio disonesto, per mettere a segno le azioni e procurarsi vie di fuga sicure. Anni dopo, si trovarono nella condizione bislacca di indagare sui loro stessi crimini: un video Rai della rapina all’armeria Volturno di Bologna, costato la vita nel 1991 alla proprietaria Licia Ansaloni e al suo commesso, mostra una fila di poliziotti che fa da cordone.

Tra loro si scorge il viso inespressivo di Roberto Savi che, quel giorno di maggio del 1991, ebbe giusto i minuti per tornare a casa dopo il colpo, cambiarsi e montare in servizio. Al tempo, le raccapriccianti imprese di quelli della Uno bianca erano già note a tutti, e addebitate senza dubbi al medesimo nucleo. Non ancora nel 1988, quando fu loro affibbiato il primo nome da cronache nere: «La banda delle Coop». Una definizione che arrivò a includere decine di professionisti del crimine, poi risultati del tutto autonomi rispetto ai Savi. Che in una di quelle iniziative armate, il 26 giugno del 1989, fecero la prima vittima civile, il primo omicidio di pura crudeltà. La prima di tante esecuzioni mosse non dal bisogno di non essere identificati, ma dal piacere gratuito di infliggere punizioni a chi non rispondeva ai canoni aberranti del loro senso del giusto e dello sbagliato.

Un pensionato, Adolfino Alessandri, passava per caso in bicicletta per via Gorki a Bologna, mentre i fratelli scappavano coi soldi della Coop locale coprendosi la fuga con un’esplosione. L’uomo ebbe il torto di mandarli al diavolo: i Savi si fermarono, scesero dall’auto e lo lasciarono morto sull’asfalto. Così.

In maniera similare Graziano Mirri, benzinaio di Cesena, ebbe l’ardire di tirare in faccia il portafoglio con l’incasso di giornata a Fabio Savi, che gli puntava contro una pistola. Non poteva sapere che la banda, ormai, uccideva per molto meno. Il bandito lo ammazzò sotto gli occhi della moglie e, al processo, non riuscì a nascondere un ghigno di menefreghismo, mentre la donna gli urlava in faccia il suo dolore: «Ti aveva pure dato i soldi, adesso lo vado a trovare al cimitero». Era lo stesso uomo che, in risposta a un «Mi hai ucciso un figlio» dai banchi del pubblico, rispose «Fanne un altro». Per quanto difficile da concepire, Savi raccontò che, rapina dopo rapina, morto dopo morto, ci si era assuefatti. «Non si usciva di casa col desiderio di uccidere ma, se qualcuno ci ostacolava, noi sparavamo».

Disgraziatamente, il concetto di ostacolo venne sempre più esteso: il povero Primo Zecchi, marito di Rosanna, tuttora presidentessa dell’associazione vittime della Uno bianca, il 6 ottobre del 1990 era in via Zanardi a Bologna. Stava aspettando moglie e figlia, di ritorno da una gita. Assistette a una rapina dei Savi e gli venne istintivo provare a segnarsi il numero di targa della Uno bianca. I fratelli se ne accorsero, uno di loro scese dall’auto e lo freddò. Il 27 dicembre del 1990, a Paride Pedini, 33 anni, bastò sbagliare il momento di rincasare dal lavoro: parcheggiò accanto a una Uno lasciata a bordo strada con le portiere aperte, si incuriosì. Volle andare a vedere, e morì. Col senno di poi, si sarebbe cercato il germe di tanta violenza cieca in un contesto così improbabile – due tutori della legge che otto ore al giorno la difendevano e, nel resto della giornata, la calpestavano col massimo disprezzo – senza riuscire a scovarlo. O meglio, rifiutandolo.

Si sarebbe parlato del padre Giuliano, un tipo strambo, nostalgico e dispiaciuto che l’Italia avesse perso la guerra, amanuense di cartelli inquietanti («Attenti al cane e al padrone», «Campo avvelenato»); ai giornalisti diceva che mai avrebbe immaginato di aver allevato tre assassini a sangue freddo, semmai sperava di averli cresciuti a sani valori, l’amore per le armi da fuoco e i rudimenti del sistema in vigore prima della Repubblica, perché «il mondo sta andando in sfacelo, basta guardare quale importanza danno adesso a negri, zingari, froci».

Si sarebbe pure scavato nella vita del capo della banda, Roberto, trovando quasi nulla: un’iscrizione al Fronte della gioventù che, tutt’al più, indicava simpatie di destra in un territorio di fortissima maggioranza di sinistra. Ancora, si sarebbe speculato sul fatto che Fabio, il più intrepido nelle azioni, fosse pure lui «un maniaco degli armamenti», come riportano le cronache, e che in cucina allineasse i pacchi di pasta con quelli colmi di polvere da sparo. Circostanza negata con sdegno da Savi, molto attento a correggere imperfezioni nel suo ritratto criminale.

Il fatto è che, nello svolgersi della loro sventura a piede libero, la banda aveva perso qualunque inibizione ed effettivamente il fine di lucro venne ad appannarsi, per lasciare spazio al sadico piacere di fare del male. Proprio come capita ai serial killer. Lo verificò a sue spese il signor Aniello Di Martino, il 13 luglio 1991, alcuni giorni dopo aver sbarrato la porta alla banda nel suo ufficio postale di San Lorenzo di Riccione. Venne atteso sotto casa dai fratelli e ferito a pistolettate: con lui il figlio di 24 anni, che finì in ospedale. Fu la prima ritorsione, in cui lo sbandierato movente economico, sostenuto dai fratelli una volta incarcerati, era del tutto assente: i Savi volevano solo vendicarsi per non essere riusciti a portare via la cassa. Farla pagare.

Il delirio di quelli della Uno bianca abbracciò altri valori propugnati in famiglia e si manifestò nell’esecuzione di Ndiaj Malik e Babou Chejkh, due operai senegalesi che vennero crivellati di proiettili il 18 agosto del 1991 a San Mauro Mare. Sulla loro fine, Fabio Savi ebbe il coraggio di affermare che si fosse trattata di una missione di pulizia etnica ed etica, una variazione sul tema delle rapine: «Quei due erano spacciatori. Vendevano droga e giravano in auto ubriachi, lungo un viale in cui c’erano donne a spasso con i bambini. Non era un comportamento accettabile».

Del resto, sempre per le stesse motivazioni di igiene sociale, qualche mese prima la banda si era resa responsabile di un attacco al campo nomadi di via Gobetti a Bologna, alle otto del mattino della domenica. Una madre di quattro bambini, Patrizia Della Santina, e un ragazzo, Rodolfo Bellinati, vennero ammazzati. Nessun bottino, nessuna vendetta: anzi, sì, perché erano zingari. Quelli che mandano in rovina l’Italia, come avevano imparato a pensare.

La strage del Pilastro

Di tutte le famigerate gesta di quelli della Uno bianca, tuttavia, la più controversa e dibattuta è la strage del Pilastro. Avvenne in un quartiere difficile e periferico di Bologna, il 4 gennaio di trent’anni fa, in tarda serata.

Una pattuglia di tre giovanissimi carabinieri – il più anziano aveva 22 anni – sorpassò l’auto dei Savi, che erano in cerca di un veicolo da rubare per un colpo. Con l’occhio dell’esperto, Roberto pensò che li avessero presi di mira, e che volessero controllarli. Nel dubbio, come di prammatica, iniziò a sparare. Otello Stefanini, al volante, venne colpito e si schiantò contro un cassonetto. Andrea Moneta e Mauro Mitilini uscirono dal veicolo e spararono, ferendo Roberto di striscio all’addome. Ma non avevano speranze, colti di sorpresa e opposti a tre assassini equipaggiati con fucili da assalto.

Il Savi contuso rientrò a casa e mandò la moglie, che aveva appena saputo della strage dal telegiornale e viveva (disse lei) in uno stato di prostrazione tale da impedirle di fare denuncia, a comprare della bromelina per alleviargli il dolore. Per quell’infame omicidio plurimo vennero giudicati colpevoli altri fratelli, Peter e William Santagata, riconosciuti da una testimone, Simonetta Bersani, poi accusata di calunnia – la salvò la prescrizione – quando i Savi, al loro processo, confessarono anche quell’agguato.

Ed è su quella strage, che il 27 gennaio 2021 (sì, 2021) la procura di Bologna ha aperto un fascicolo di indagine per approfondire la possibilità che davvero qualcuno avesse convinto la donna a depistare le indagini sui Savi, individuando gli esecutori in membri della criminalità organizzata. Non solo: il giornalista Massimo Mazzanti, già autore di un testo piuttosto esplicito nella tesi sulla Uno bianca (Depistaggi e misteri irrisolti) ha presentato un esposto per accertare una circostanza effettivamente inquietante: già nel 1991, la questura di Rimini aveva girato alla Criminalpol l’elenco dei possessori di fucili analoghi a quelli usati per il massacro del Pilastro. Risultava che tale Savi Fabio, nato il 22 aprile 1960 e residente a Villa Verucchio, era in possesso di una carabina modello Sig-Manuhrin identica a quella che aveva sparato contro i carabinieri. Eppure, di quella segnalazione non si fece nulla: anzi, le perizie del 1995 condotte per accertare l’identità dell’arma con quella usata nell’azione, parlavano di un fucile «inedito», di cui non si sapeva nulla prima di allora. Invece, indagando a fondo, si sarebbe potuto sapere.

Che quelli della Uno bianca potessero essere fermati prima o fossero eterodiretti, però, non è una novità. Si dice dall’anno del loro arresto. Già nel 1995, l’allora procuratore di Pesaro aveva intuito che potesse trattarsi di gente avvezza alle armi, e le loro schede, tra centinaia, erano state acquisite tra gli abbonati ai poligoni di tiro. Solo che nessuno, fino ai poliziotti Baglioni e Costanza, cui fu concesso di continuare a indagare dopo lo scioglimento del pool riminese, fu in grado di mettere insieme i pezzi. Oppure, questa è la versione complottista, si poteva fare ma si decise di lasciare che continuassero a seminare il terrore.

Fino all’arresto di Roberto Savi, il 21 novembre 1994, nato qualche settimana prima da un casuale incontro tra i due indagatori e Fabio Savi, impegnato in un sopralluogo davanti a una banca in una frazione di Rimini. Savi venne seguito fin sotto casa, identificato, associato ai fratelli poliziotti e, quando ormai nessuno pensava che sarebbero mai stati catturati, iniziò la fine della storia della Uno bianca, con le manette al fratello maggiore, sorpreso in servizio. L’appellativo automobilistico, frattanto, i banditi lo avevano meritato perché avevano eletto a veicolo utile per le azioni, quasi sempre, l’automobile allora più diffusa e facile da rubare, con un cacciavite e una forbicina per avviare i contatti sotto il volante.

Sulla cattura del 1994, Fabio Savi tenne a puntualizzare che «non era accettabile» essere stato smascherato da Baglioni e Costanza. Sostenne che gli fosse stato detto, in sede di interrogatorio, che un bel giorno era arrivata una telefonata ai carabinieri. Una voce di donna. Difficile si potesse trattare di Eva Mikula, la giovane fidanzata romena che, dopo la cattura, iniziò a sfilarsi dal ruolo di fidanzata del killer spietato, sostenendo – in numerose ospitate televisive e interviste a pagamento, a suo dire concesse per pagarsi la difesa – di essere rimasta per anni sotto scacco di un uomo violento e vendicativo, segregata e sottomessa. L’associazione dei parenti delle vittime, al di là di gridare allo scandalo per i permessi concessi ad Alberto Savi e per le scarcerazioni di Occhipinti, Gugliotta e Vallicelli, i complici di secondo piano, sostiene per bocca della signora Zecchi che qualcuno ha coperto e continua a coprire i Savi, a dispetto degli ergastoli. Come se non fosse possibile che da soli possano aver fatto tutto ciò. Come se a qualcuno (facile indovinare chi: «I servizi segreti deviati», secondo i più) abbia fatto comodo spianare la strada alle imprese di quei farabutti. Ma un po’ più a nord, qualche anno prima, la cosiddetta banda del Brabante Vallone colpì a ripetizione filiali di una catena di supermercati. Erano tre banditi che andavano a soldi, ma sembravano divertirsi a uccidere anche se non necessario: fecero 28 morti, alcuni dei quali per puro capriccio. I giornali li battezzarono «gli assassini pazzi».

Poi uno dei tre, in una sorta di Pilastro mitteleuropeo, rimase ferito in una sparatoria e da allora, a differenza dei nostri, smisero di agire. Non furono mai trovati. Nessuno pensò a un piano eversivo per destituire il re. Ma in Belgio la dietrologia non attecchisce come qui.

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