Le “linee programmatiche sulla giustizia” che la ministra Marta Cartabia ha esposto alla commissione Giustizia della Camera dei deputati rappresentano, con particolare riguardo a quelle relative alla giustizia penale, una evidente inversione di rotta, una cesura netta ed inequivocabile rispetto al precedente governo.

Il recupero, nel ragionamento programmatico del ministro Guardasigilli, della centralità di principi costituzionali quali la presunzione di non colpevolezza e la finalità rieducativa della pena, in luogo delle parole d’ordine del populismo penale che abbiamo dovuto ascoltare per quasi un triennio in quelle stesse aule, merita perciò solo la più fragorosa standing ovation.

Sentir ricordare dalla nuova inquilina di via Arenula che, secondo la nostra Costituzione, la certezza della pena non è necessariamente sinonimo di carcere lascia quasi increduli, talmente rumoroso ed incessante è stato, in questa prima parte della legislatura, il suono di quel becero slogan giustizialista. Ed ancor più confortante è il netto richiamo alla necessità che il principio di non colpevolezza debba valere anche in termini mediatici, il che impone -diversamente da quanto oggi accade- riserbo e sobrietà di inquirenti e cronisti nella fase delle indagini.

Naturalmente, la cruciale importanza di questa messa a fuoco dei parametri costituzionali di una rinnovata politica della giustizia penale non basta a farci comprendere e valutare con esattezza quali saranno, e quanto condivisibili, le soluzioni che il governo si appresta a proporre rispetto ad alcune delle riforme cruciali oggi sul tavolo: ragionevole durata del processo penale, prescrizione, ed infine ordinamento giudiziario.

Le criticità nel penale

L’esplicito richiamo alla legge-delega firmata dal Ministro Bonafede quale punto di partenza del percorso di riforma, sul quale innestare proposte nuove, è comprensibile dal punto di vista degli equilibri politici del nuovo governo, ma non è certamente di buon auspicio.

Le deleghe sulla riforma dei tempi del processo penale hanno profondamente tradito gli approdi faticosamente condivisi tra magistratura ed avvocatura al tavolo ministeriale, sacrificando le proposte allora concordate sull’altare delle più viete parole d’ordine populiste.

Il richiamo della ministra all’indispensabile, forte potenziamento dei riti alternativi ed al recupero della funzione di filtro della udienza preliminare fa ben sperare in termini del possibile recupero dei punti qualificanti di quell’accordo, ma si tratterà di vedere in concreto quali saranno le proposte della neonata Commissione Ministeriale, alla cui composizione -dobbiamo prenderne atto con amarezza e preoccupazione- la rappresentanza storica dei penalisti italiani è rimasta del tutto esclusa.

Allarmante ci è invece parso il riferimento, inequivocabile, ad interventi “ragionevolmente selettivi dell’accesso al secondo grado di giudizio”, antica ossessione della magistratura italiana ma per fortuna solo di una assai ristretta e minoritaria parte dell’accademia.

Anche sui tempi delle indagini, la Ministra è parsa apprezzare le soluzioni concepite nella legge delega, che tuttavia si limitano ad improbabili sanzioni disciplinari nei confronti del magistrato, palesemente inidonee ad incidere effettivamente sui tempi cruciali di quella fase procedimentale.

La prescrizione

Sulla prescrizione, la relazione si è limitata ad una ricognizione, anche comparatistica, delle varie soluzioni possibili per riscrivere la sciagurata riforma Bonafede: ma su questo tema, occorre dire con molta chiarezza che i margini di mediazione sono obiettivamente nulli.

In un sistema giudiziario nel quale i tempi dei prescrizione dei reati (anche di media gravità) non è inferiore ai 15 anni, fino a raggiungere e superare anche i trenta nei casi più gravi; nel quale la riforma Orlando aveva già introdotto -censurabilmente, a nostro avviso- ben due sospensioni del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e dopo quella di appello, ed in un contesto di pachidermica lentezza della macchina giudiziaria, ogni ulteriore cedimento alle pretese di chi deve piantare, per mere esigenze propagandistiche, la bandierina di un ulteriore aggravamento del “processo senza fine” appare del tutto ingiustificabile.

Se invece si vuole cogliere l’occasione per un complessivo ripensamento dell’istituto, che apra anche a forme miste di prescrizione sostanziale e processuale, allora i penalisti italiani non mancheranno di dare, come sempre, il loro contributo.

La riforma dell’ordinamento giudiziario

Infine, la riforma dell’ordinamento giudiziario avanzata dal precedente governo è ben lontana dal poter minimamente incidere sulla grave crisi della magistratura italiana. Due temi cruciali continuano ad essere elusi: l’automaticità della progressione delle carriere, che umiliando la qualità professionale apre la strada a criteri vicari (correntizi, politici etc) di scelta dei vertici degli uffici; l’indebita commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo, mediante la pratica dei distacchi dei magistrati presso i ministeri, senza la cui secca eliminazione sarà illusoria ogni pretesa di indipendenza dalla politica.

E invece ci si trastulla con il sistema elettorale del Csm, per il quale la legge delega prevede una soluzione che, addirittura, potrebbe mandare solo Pubblici Ministeri all’ organo di autogoverno!

Per parte nostra, l’Unione delle Camere Penali darà fondo a tutte le proprie capacità di iniziativa politica e culturale per giungere infine a mettere a disposizione di tutte le forze parlamentari e politiche, nonché del Governo se esso lo riterrà utile, organiche proposte di riforma rigorosamente rispettose, esse sì certamente, dei principi costituzionali così provvidenzialmente e felicemente invocati dalla ministra Cartabia.

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