«La ministra ci sta lavorando» e alla presentazione degli emendamenti al ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario «non manca molto». Sono queste le uniche due risposte, le stesse da settimane, che si riescono a strappare dall’entourage della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Insomma il testo sarebbe quasi pronto - mancherebbero le ultime limature e il via libera di palazzo Chigi – ma di tempi certi non si può parlare. Il 2 dicembre la commissione Giustizia era stata convocata per discuterli, ma da via Arenula è arrivato solo l’imbarazzato sottosegretario Francesco Paolo Sisto che ha chiesto ancora un po’ di tempo.

L’unica certezza, ad oggi, è che il metodo Cartabia – quello felpato di certosina costruzione di convergenza politica lontano dallo scontro per poi approvare a pacchetto emendamenti condivisi – con la magistratura non sta funzionando.

Come mai i tempi si siano così dilatati è difficile da capire: la commissione presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani e incaricata di relazionare le correzioni al testo base ha concluso il lavoro il 31 maggio e da allora il ministero è al lavoro per produrre il maxiemendamento.

Intanto, il limite temporale diretto fissato dal Pnrr è già ormai superato perchè fissava la data di approvazione entro dicembre 2021. Il tempo ormai è agli sgoccioli anche per tentare di rispettare la scadenza delle elezioni del prossimo Consiglio superiore della magistratura a luglio 2022.

Il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario, infatti, contiene anche la nuova legge elettorale del Csm che dovrebbe neutralizzare il correntismo che ha caratterizzato la stagione del caso Palamara. 

Eppure le sollecitazioni a velocizzare i tempi sono arrivate da più parti: la magistratura associata, pur divisa nelle soluzioni da adottare, è stata compatta nel chiedere una rapida presentazione degli emendamenti così da poterli discutere in audizione e anche i partiti si sono messi a disposizione per procedere a tappe forzate. Una richiesta decisa è arrivata anche dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, che dal 2019 auspica una riforma del Csm dopo il caso Palamara e la settimana scorsa, davanti a una platea di magistrati, ha usato parole chiarissime rispetto al solito, dicendo che «è indispensabile che la riforma venga al più presto realizzata, tenendo conto dell'appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio superiore. Non si può accettare il rischio di doverne indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili». Lo stesso ha chiesto anche il vicepresidente del Csm, David Ermini, intervenuto a un evento sulla giustizia nel Meridione organizzato dal Consiglio nazionale forense a Reggio Calabria.

Invece, gli appelli sembrano caduti nel vuoto e per ora dal ministero tutto continua a tacere, tranne generiche rassicurazioni che manchi poco al deposito.

La balcanizzazione

Per riuscire a fare in tempo ad approvare la riforma entro luglio 2022, i tempi sono strettissimi. Perchè sia possibile, gli emendamenti della ministra dovrebbero arrivare in commissione Giustizia entro Natale, poi verrà fissato il termine per i subemendamenti e, nella migliore delle ipotesi, la commissione Giustizia della Camera potrebbe iniziare a procedere all’esame del testo a gennaio. Ma con il voto per la presidenza della Repubblica di mezzo è difficile immaginare che il ddl possa arrivare in aula a Montecitorio prima di marzo. E questo immaginando che gli emendamenti del ministero vengano accolti senza particolari approfondimenti e si trovi immediatamente l’accordo politico per votarli.

Un accordo politico che ad oggi non esiste. Tra i partiti di maggioranza, il Partito democratico condivide la bozza Luciani che prevede un sistema proporzionale con il “singolo voto trasferibile”, Forza Italia e tutto il centrodestra spinge per il sorteggio temperato e il Movimento 5 Stelle è ancora fermo al testo base di Alfonso Bonafede, che prevede un sistema maggioritario a doppio turno. altrettanta divisione c’è tra i gruppi associativi: le toghe progressiste di Area e Magistratura democratica insieme a quelle centriste di Unità per la Costituzione condividono la soluzione Luciani, anche Autonomia e Indipendenza gradisce un sistema di tipo proporzionale, Magistratura indipendente invece la avversa perchè ritiene che esalti il correntismo, Articolo 101 spinge per il sorteggio temperato. 

Con parlamento e magistratura così balcanizzate, allora, è evidente perchè da via Arenula si tentenni a presentare il maxiemendamento che sicuramente scontenterà almeno una delle parti. Eppure, non ci sono notizie di incontri nemmeno riservati per avvicinare le posizioni e trovare una sintesi sul testo in modo da non rischiare il fiume di emendamenti in Commissione e le proteste delle toghe.

Eppure, più l’attesa si prolunga, più la situazione politica si complica: ogni riforma, anche la più delicata e ineludibile perchè compresa nel Pnrr, finisce invischiata nello scontro che si sta consumando dentro la maggioranza in prospettiva di un ritorno alle urne e dell’elezione del presidente della Repubblica. Con il risultato che anche la riforma del ddl sul Csm – che non contiene solo la legge elettorale ma anche le nuove regole per gli incarichi direttivi dei magistrati e quelle per disciplinarne l’ingresso in politica – potrebbe finire nel tritacarne della contesa. E rischiare anche di non venire approvata.

Se Cartabia perdesse l’occasione storica di una riforma di sistema della magistratura, per altro promessa anche al Consiglio europeo, sarebbe una macchia non da poco nel suo curriculum. Ma per approvarla serve uno scatto di coraggio e anche la consapevolezza di scontentare qualcuno.

Altrimenti, il rischio è anche peggiore: che, anche dopo gli scandali Palamara e della presunta loggia Ungheria, una riforma non ci sia e allora sia i partiti che le toghe scaricheranno sull’esecutivo la responsabilità del fallimento.

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