Ragazzi ancora dentro? Così si interrogavano, quasi provocatoriamente, i giudici minorili in un Convegno svoltosi a Torino vent’anni fa sui temi legati alla devianza minorile ed ai suoi continui cambiamenti, con una tensione dedicata, data la grande rilevanza della questione, al rigore e al rinnovamento della legislazione e delle prassi, anche allo scopo di contrastare le false conoscenze create dalle suggestioni mediatiche che restano, evidentemente, una costante in materia.

Oggi, temo che non solo risulti improponibile la forma interrogativa, anzi al contrario siamo difronte ad una evidente affermazione se non ad una sorta di ingiunzione che, in tema di devianza minorile, definirei accompagnata e rinforzata da un diffuso e crescente sentimento di paura e di sfiducia, alimentato da una narrazione decisamente allarmistica, sebbene riferita ad un Paese che presenta il tasso di delinquenza minorile più basso in Europa.

La giustizia penale minorile italiana – considerando che in Europa si è guardato al nostro sistema come ad un modello da seguire – forse «non meritava le involuzioni normative recenti, che rischiano di riportaci indietro almeno di qualche decennio nella storia giuridica del nostro Paese». A partire almeno dal 1988, con l’entrata in vigore del codice di procedura penale minorile, l’Italia aveva scelto infatti un’altra via dove “ragazzi dentro”, ovvero la risposta detentiva, era considerata l’extrema ratio.

Devo queste riflessioni, alla interessante lettura del Settimo Rapporto sulla giustizia minorile in Italia presentato dall’associazione Antigone e intitolato significativamente “Prospettive minori”, nel senso di minori prospettive per il sistema penale minorile nel suo complesso, che sta rinunciando a quei principi ispiratori originari sui quali è stato costruito; per la maggioranza degli operatori, che svolgono un lavoro straordinario fuori e dentro le carceri minorili e si ritrovano strumenti e condizioni sempre più inefficaci; ma, soprattutto, «prospettive minori per i ragazzi e le ragazze, che si ritrovano attorno più sbarre, sia fisiche che metaforiche, e meno speranze riguardo al futuro dei loro percorsi», educativi e rieducativi all’interno del circuito penale.

Il Rapporto è stato divulgato quasi all’indomani delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario che, in molti Distretti, hanno posto l’attenzione proprio alla persistente gravità del fenomeno dei giovani e giovanissimi autori di reato, che necessita ovviamente di risposte sempre più adeguate nonché all’altezza da parte del sistema della giustizia minorile.

L’intervento recente del Legislatore al quale la pubblicazione fa riferimento è il d.l. 15.9.2023 n. 123, recante “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale” (cd. decreto Caivano).

E’ utile sottolineare che, con riguardo ai profili di interesse penalistico, il decreto ha in effetti apportato modifiche rilevanti in materia di misure di prevenzione della violenza giovanile, di contrasto dei reati commessi dai minori, di misure anticipate relative a minorenni coinvolti in reati di particolare allarme sociale, nonché modifiche al D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 “Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, in materia di custodia cautelare e percorso di rieducazione del minore.

Tuttavia, il Rapporto si caratterizza in primo luogo per il richiamo ben documentato con dati e approfondimenti, alle condizioni allarmanti degli Istituti penali per i minorenni che, a livello nazionale, hanno raggiunto all’inizio del 2024 circa 500 detenuti presenti, il numero più alto registrato negli ultimi dieci anni. Anche gli ingressi in IPM risultano in netto aumento con 1.143 casi nel 2023, la cifra più alta negli ultimi quindici anni, anche in base all’analisi degli ingressi in IPM nel lungo periodo (2010 - 2022) che pur evidenziando un andamento oscillatorio con un picco di ingressi maggiore rilevato nel 2012 con 1.252 ingressi, osserva un progressivo e costante decremento, del 20,0% nel 2014 e del 10,0% tra il 2010 e il 2022.

La presenza negli IPM oggi è fatta soprattutto di ragazzi minori d’età e la fascia anagrafica più rappresentata è quella dei 16 e 17 anni, ed in totale i minorenni sono in larga maggioranza, quasi il 60,0% dei presenti.

Le statistiche sugli ingressi in carcere si incaricano di fornire alcune ulteriori indicazioni in proposito: i ragazzi entrati in IPM in misura cautelare sono 340 nel gennaio 2024, mentre erano 243 un anno prima. Solo in percentuale inferiore fanno ingresso in carcere per l’esecuzione di una pena detentiva in conseguenza di una condanna definitiva tanto che la crescita delle presenze negli ultimi dodici mesi è fatta quasi interamente di giovani in misura cautelare. Altro effetto del decreto citato – aggiunge l’associazione Antigone – «è la notevole crescita degli ingressi in IPM per violazione della legge sugli stupefacenti, con un aumento del 37,4% in un solo anno».

I reati contro la persona sono il 22,7% dei reati a carico delle persone entrate negli IPM e la categoria di reati più frequente sono i reati contro il patrimonio, che rappresentano il 55,2% del totale dei reati a carico di tutti coloro che sono entrati in IPM nel corso del 2023, il 63,9% se si guarda ai soli stranieri. Tra i reati contro il patrimonio il più ricorrente è il furto, che pesa per il 15,1% del totale dei reati a carico di tutti coloro che sono entrati in IPM nell’anno. I reati contro l’incolumità pubblica (10,6% del totale) sostanzialmente coincidono con le violazioni della legge sugli stupefacenti, che rappresentano il 10,2% del totale dei reati a carico di chi è entrato in carcere nel 2023, ed il 14,5% se si guarda ai soli italiani. Questi numeri, considerando gli ingressi nel 2022, erano rispettivamente il 6,9% e l'8,6%. Di fatto, quindi, se si confrontano i delitti a carico delle persone entrate negli IPM nel corso del 2022 con quelle entrate nel 2023, la crescita maggiore è quella registrata appunto per le violazioni della legge sugli stupefacenti, che sono aumentate del 37,4% in un solo anno.

Data questa tendenza, non può sfuggire che siamo di fronte al rischio che sia messo in discussione un sistema penale che, secondo la normativa nazionale e sovranazionale, negli ultimi decenni ha in ogni modo posto al centro i giovani e i giovani adulti autori di reato cercando di costruire, per loro e per la collettività, un futuro diverso e lontano dagli eventi delinquenziali.

Purtroppo, la questione punitiva ha una “storia infinita” ed è forse per questo che ciclicamente ricompare all’orizzonte dei discorsi sui giovani e sulla società a ricordarci che molti punti lasciati in sospeso chiedono ancora di essere riempiti. Dentro il contenitore punitivo si vuol spesso far rientrare tutta una giovane vita, con le rispettive appartenenze familiari e sociali, e non solo i suoi gesti trasgressivi e devianti.

Appare diffondersi una volontà crescente di punire che trova origine non solo nei diversi fenomeni di criminalità che affliggono il nostro Paese ma anche nel senso di insicurezza pervasivo provocato da molti aspetti della realtà sociale, in particolare in questa fase di criticità ed emergenze globali.

Fatalmente, quando riemerge questo bisogno sociale di punire, si sa, che a farne le spese per primi sono sempre i più giovani, soprattutto se più fragili ed esposti. Infatti, le loro trasgressioni ed i loro agiti devianti sono quelli più facili da stigmatizzare e più facilmente visibili, del resto il loro calcolo dei rischi è grossolano così come il loro bisogno di violare norme e consuetudini. Dunque, è probabilmente più facile perseguirli e punirli in quanto rappresentazione più evidente di minaccia e di disagio per la società. Così oggi punire può tornare a significare dare pena, far penare, scaricando sul ragazzo il conto che non ha saputo saldare con le regole e con l’autorità, considerando la punizione solo nella sua versione quantificabile e oggettiva che presume di poter escludere ogni soggettività.

L'emergenza è proprio educativa! Ma ancora più allarmante è la cecità delle istituzioni e della società tutta, che vede questi ragazzi come nemici da neutralizzare e non come risorse. E che soprattutto non si rende conto che il fenomeno è il frutto della sua stessa indifferenza e dell'emarginazione sociale che contribuisce ad alimentare ogni giorno, dai gesti più piccoli a quelli più eclatanti. E la risposta non può essere solo repressiva. Non per individui adulti e formati, figurarsi per gente che ha ancora “tutto” da costruire!

Una ricerca effettuata da Rossella Selmini e Stefania Crocitti, professoresse del Dipartimento di Scienze Giuridiche di Bologna ci avverte di prestare attenzione anche al ruolo determinante che negli ultimi anni stanno giocando i media nel dare visibilità al fenomeno. “L’inquadramento mediatico del problema, che definisce “baby-gang” pressoché ogni episodio conflittuale nello spazio pubblico in cui sia coinvolto più di un giovane, contribuisce a creare un clima sociale di intolleranza verso il problema e non aiuta alla sua comprensione”. Lungi da me l’intenzione di limitare il diritto di cronaca ma così si spinge a comportamenti emulativi e la mera risposta sanzionatoria rinforza il senso di appartenenza e il processo di costruzione di una identità di “banda”.

L’approfondito studio dimostra che la violenza minorile va trattata come una espressione di richieste di spazio, di identità, di visibilità a cui il mondo degli adulti e le istituzioni non stanno fornendo risposte adeguate.

È indispensabile l’Individuazione di spazi fisici dove i giovani coinvolti nel fenomeno possano avere visibilità e possibilità di esprimere la loro sensazione di non appartenenza. Dalla ricerca emerge con chiarezza che “la questione dello spazio pubblico e dei conflitti che lo caratterizzano sempre di più, nelle nostre città, è centrale nell’intervento sulle aggregazioni giovanili. Questi gruppi cercano spazio e visibilità ma non sono ben accolti, perché sono rumorosi, disturbano, provocano”. In effetti, il problema della movida investe tutte le nostre città. Gli esperti ci avvertono che “c’è qualcosa di simbolico nel ritrovarsi in un centro commerciale, o nell’”invadere” il centro della città: sono i luoghi del consumo per eccellenza e delle opportunità, da cui molti dei giovani delle aggregazioni di cui stiamo parlando si sentono esclusi, ma di cui vogliono essere parte. La maggior parte delle aggregazioni giovanili studiate non è di quartiere: sono gruppi che si muovono sul territorio cittadino cercando lo spazio che a tutti viene presentato come lo spazio per eccellenza dell’inclusione: il centro della città, i centri commerciali. Tuttavia, in realtà questi spazi sono pensati per la fruizione di un solo pubblico, ben selezionato, fatto prevalentemente di consumatori e di turisti (adulti). Uno sforzo quindi di ripensamento delle strategie di gestione dello spazio pubblico per dare spazio a un gruppo di soggetti minoritario, ma che richiede visibilità, dovrebbe essere fatto”.

Illuminante la ricerca svolta quando dimostra che “La questione dello spazio fisico si accompagna a quella di una nuova progettualità da proporre a questi giovani, che dia spazio al loro bisogno di inclusione e di protagonismo e che parta dai loro bisogni e interessi: la musica e il web in primo luogo. Il sostegno alla produzione di progetti musicali e culturali propri, per esempio, o il recupero di attività sportive gestite però in autonomia (quelle ufficiali sono regimentate in tempi e luoghi fortemente controllati), sull’esempio del progetto di grande successo nelle città americane dei “Midnight baseball”, con i campi da baseball aperti fino a notte tarda e affidati a gruppi, sotto la gestione di uno o più operatori specializzati”.

Da ultimo ma, a mio modesto avviso il più impellente, necessita un intervento specifico rivolto ai minori immigrati che compongono questi gruppi, sia quando si tratta di gruppi su base etnica che misti. La ricerca segnala un’evidente problematicità sotto questo profilo, che richiede in primo luogo un intervento mirato a risolvere la situazione di “parcheggio” dei minori stranieri non accompagnati nei centri di accoglienza: condizione che la ricerca evidenzia come potenzialmente rischiosa per il coinvolgimento in attività devianti o criminali.

Ad oggi, pur nei diversi ruoli previsti all’interno del sistema della giustizia minorile, costituisce un’acquisizione irrinunciabile considerare la punizione mai avulsa da un contesto educativo positivo, e soprattutto come uno spazio, un tempo ed un’opportunità per il giovane di cambiamento, innanzitutto dall’agire al pensare. Condizione per cogliere realmente la possibilità di essere capace, in qualche modo, di riparare il danno fatto; di sentirsi responsabile dei propri agiti e di potersi attenere alle regole di convivenza vissute non solo come un’imposizione priva di significato.

Punire ma sostenere allo stesso tempo, sanzionare ma anche offrire opportunità di cambiamento, per consentire a chi è detenuto di comprendere la bellezza del vivere in legalità e in libertà!

Tutti abbiamo commesso errori nella nostra vita e dalle punizioni subite ne abbiamo tratto vantaggio; ma quando siamo stati messi in grado di ricrederci e di intraprendere percorsi di vita diversi, di comprendere le conseguenze negative dei nostri errori e abbiamo avuto la possibilità di constatarle attraverso l’incontro con la sofferenza provocata, ne siamo usciti persone migliori!

Certo, se poi la persona ristretta non le coglie e sfrutta, occorre salvaguardare anche l’esigenza di tutela e sicurezza della collettività, non certo meno meritevole di altre; ma vorrei tanto far parte di una Giustizia che consenta anche di “curare” e “amare” il reo e la vittima del reato!

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