L’affaire It’s Art ha fatto parlare molto di sé negli ultimi giorni, e va trattato con il giusto equilibrio, soprattutto da parte di un giurista che si trova davanti un caso di partenariato pubblico-privato, dai più spesso invocato come soluzione per tutti i mali, davanti alla carenza sempre più cronica di fondi per la cultura..

Iniziamo provando innanzitutto a recapitolare i fatti.

Il caso

Tutto comincia nel maggio 2020 quando la piattaforma It’s Art nasce per proporre, in una delle fasi più dure del lockdown, film, serie TV, spettacoli, documentari e musica. L’idea era comunque quella di mantenere vivo il progetto anche con l’allentamento delle restrizioni. “Ci sarà chi vorrà seguire la prima della Scala in teatro e chi preferirà farlo, pagando, restando a casa”, così spiegava l’allora Ministro della Cultura Franceschini.  

L’operazione prevede un investimento di dieci milioni di euro, suddivisi tra lo Stato (10 milioni di euro, tramite Cassa Depositi e Prestiti) e la privata società Chili Spa (con 9 milioni di euro). Sul punto, erano state sollevate molte polemiche, e scanso di equivoci, si riporta qui di seguito un comunicato stampa proveniente proprio da Chili, del 12 dicembre 2020 (che si riporta testualmente qui di seguito):

CHILI è una società nata nel 2012 e finanziata interamente da privati (persone fisiche, fondi d'investimento e primarie società operanti nel suo mercato di riferimento). 

Dal 2012 sono stati fatti ingenti investimenti per creare una piattaforma proprietaria ed un'offerta in grado di crescere a livello internazionale e poter generare un adeguato ritorno nel tempo.

Il livello di indebitamento finanziario di CHILI è una frazione di quanto indicato dalla stampa ed in linea con aziende comparabili per dimensioni e settore di operatività.

Tutti i principali players che operano in questo mercato globale, per raggiungere la redditività, hanno necessità di investire ingenti somme in tecnologia, marketing e contenuti e quindi sostenere perdite per alcuni anni dalla loro fondazione.

Il controllo di CHILI fa capo a Negentropy, società fondata da Ferruccio Ferrara, e dai fondi di investimento gestiti dalla stessa.

La gestione di CHILI è dalla sua fondazione affidata a Giorgio Tacchia (fondatore, CEO, Presidente del CDA ed azionista della società stessa). Stefano Parisi, co-fondatore nel 2012, è oggi un azionista di minoranza; dal 2016 non ha ruoli operativi nella società e non fa parte del consiglio di amministrazione.

CHILI ha partecipato nel mese di agosto 2020 ad una gara insieme agli altri principali players di mercato - pubblici e privati, italiani e non - per costituire una Joint Venture (JV) con CDP, la cosiddetta Piattaforma della Cultura.

La possibilità di creare un nuovo canale distributivo dell'Arte e della Cultura italiana nel mondo, la partecipazione di Cassa Depositi e Prestiti in qualità di azionista di maggioranza della JV, il supporto delle Istituzioni al progetto oltre alla qualità del contenuto e dell’opportunità di mercato evidenti nel Business Plan dell'iniziativa, hanno convinto gli azionisti di CHILI ad investire in questo progetto.

La piattaforma distribuirà contenuti italiani di qualità nel mondo, gratuitamente ed a pagamento, live ed on-demand, coinvolgendo tutte le istituzioni culturali pubbliche e private del paese che potranno trovare in questo modo un’ulteriore occasione di visibilità, distribuzione e valorizzazione economica.

I 10 milioni di euro approvati in parlamento, saranno trasferiti dal MiBACT a CDP per la realizzazione della JV e non versati in CHILI.

Al contrario CHILI contribuirà alla JV investendo 9 milioni di euro includendo tecnologia, cassa e competenze del management.

Dal punto di vista formale, quindi, nulla quaestio.

le prime difficoltà

Già da dicembre 2020, però, iniziavano le prime difficoltà, con la piattaforma che faceva fatica a stare su un mercato – come quello dello streaming – che vedeva i grossi player del settore investire somme sempre più ingenti (anche e soprattutto per far fronte al perdurare delle restrizioni), soprattutto per produzioni proprie (che It’s Art non si sarebbe mai potuta permettere).

Fino all’epilogo, il 29 dicembre 2022, quando è arrivato, da parte del nuovo Ministro della Cultura, la messa in liquidazione di It’s Art (anche se la notizia si è diffusa solo dopo le festività).

Del resto, parlavano i numeri: alla piattaforma, che non prevedeva abbonamenti, ma solo streaming on demand su singoli prodotti, si sono registrati nel tempo solo 141 mila utenti, che hanno portato a 246 mila euro di incassi, a fronte di 7,5 milioni di euro spesi nel 2021 per mantenere il servizio (di cui 900 mila euro solo per il personale).

Nel corso del 2020 (e questa è una notizia da insider), si era costituito informalmente un Gruppo di pressione per cercare di “fermare” l’operazione It’s Art, un gruppo trasversale, composto da operatori professionali del settore con competenze diverse, da cui era nato un documento mai diffuso a livello pubblico perché la piattaforma era partita, piuttosto velocemente, prima che il Gruppo riuscisse a trovare una sintesi tra le sue molte anime e proposte.

Forse un’occasione mancata perché il documento si focalizzava sì sulla questione della Piattaforma e della chiusura delle istituzioni culturali, ma soprattutto per opporsi alla visione che l’allora Ministro aveva della cultura e dell’arte.

Una sorta di cavallo di Troia per contestare l’assenza (da sempre) di azioni reali e di dibattito intorno alla cultura e nello specifico alle arti visive, che coinvolgesse sul serio gli operatori del settore. Il tema era infatti anche l’assenza di riconoscimento come ‘categoria’. Punto fondamentale di obiezione era inoltre la mancanza di visione espressa dal progetto, affidato a un soggetto privato che aveva forse già qualche difficoltà, senza coinvolgimento dei soggetti ‘beneficiari’ della piattaforma.

Non erano stati infatti interpellati né i direttori dei musei, né altri operatori della cultura. La controproposta era quella di finanziare piuttosto le produzioni, anche quelle che eventualmente sarebbero state erogate digitalmente.

Nessun museo medio piccolo italiano aveva, ed ha, infatti, la forza economica di produrre contenuti digitali adeguati; mentre dall’altro lato erano rimasti senza un sostegno adeguato artisti e lavoratori del comparto. Si voleva sottolineare poi come il progetto It’s Art nel suo complesso (così come gli altri progetti che erano trapelati per il Future Generation EU), non teneva minimamente conto del valore di crescita comunitaria e territoriale che dovrebbe avere la cultura, anche secondo il Ministero della cultura stesso che aveva attivato negli anni precedenti dei piani territoriali coinvolgendo i piccoli musei (MUSST) e che aveva ratificato la Convenzione di Faro.

Inoltre, va detto, ora che le restrizioni sono finalmente (forse) solo un brutto ricordo, che ad essere lungimiranti, per le arti visive la soluzione digitale è fortemente riduttiva di una fruizione che necessita la presenza.

Quindi a chi ed a cosa servisse realmente la piattaforma, avendo già l’ottimo archivio di Rai Play, cui forse potevano essere destinati quei fondi, per implementarlo.

Soprattutto in un periodo, come quello di metà 2020, in cui il mercato delle piattaforme dava i primi segni di essere molto saturo: risale, infatti, proprio a quel periodo la notizia che Netflix (quella vera) in Francia stesse facendo un esperimento di canale tv normale , non on demand. Il che avrebbe già dovuto dirla lunga (e sappiamo poi nel prosieguo, quanti abbonamenti abbia perso e quanti licenziamenti ci siano stati, e ci sono tuttora in tutto il settore del tech e delle piattaforme, a cominciare dal ben noto caso di Twitter).

Ma aperta e chiusa quest’ultima parentesi, è proprio sulle questioni di politica culturale, e di manifesta miopia di chi dovrebbe guidare certe operazioni, che il cd Gruppo di pressione aveva sottolineato (oltre al mancato reale coinvolgimento degli operatori del settore prima di prendere certe decisioni e investirvi soldi in parte pubblici), il vero punto nodale della questione, su cui il caso It’s art dovrebbe far riflettere, anche per costruire meglio in futuro progetti di partenariato pubblico-privato che abbiano davvero senso economico e culturale: due parole che non si dovrebbe aver timore di affiancare.

E non, come pure si è vaneggiato (soprattutto sui social, croce e delizia dei nostri tempi), ipotizzare in questo contesto fantasmagorici scenari di danno erariale: che no, mi dispiace deludere chi ha accarezzato questa idea, è una ipotesi che non sta davvero in piedi dal punto di vista tecnico-giuridico.

Perché l’operazione, in sé, era ineccepibile, dal punto di vista formale. Ed il danno erariale – mi si consenta la chiosa da giurista, in un contributo in cui ho cercato, in tutti i modi, di eliminare ogni tecnicismo, per essere comprensibile dai più - , sussiste solo in caso di danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti a condotte illecite e penalmente rilevanti poste in essere da un soggetto legato da un rapporto di servizio con una amministrazione pubblica (si veda, per tutti, la Sentenza n.3/2022 della Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana, che contiene anche una puntuale disamina delle diverse tipologie di danno erariale).

Piuttosto, tornando, per concludere, sul caso It’s Art, si sarebbe dovuti essere, da parte del Ministero, forse più recettivi verso istanze, anche di confronto, da parte degli operatori professionali del settore; e, dall’altro, questi ultimi avrebbero dovuto essere sicuramente più rapidi e incisivi e coraggiosi nel voler far sentire a tutti i costi – in fmo formale - la loro voce.

I tempi stanno, infatti, cambiando e moltre istanze arrivano proficuamente dal basso, se si uniscono veramente le forze. Se non ora, quando?

© Riproduzione riservata