“Questa Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore, riscontrato in questa pronuncia”. Così si concludeva, due anni fa, la sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale. Una sentenza nella quale, per la prima volta, la Corte ha stigmatizzato l’assenza di una legge dedicata al riconoscimento e alla tutela dei diritti delle bambine e dei bambini con genitori dello stesso sesso. Con un significativo mutamento di prospettiva, in quell’occasione la Corte mosse non dalla posizione degli adulti e del loro desiderio di diventare genitori, bensì dal punto di vista delle bambine e dei bambini, e del loro diritto di ottenere il riconoscimento giuridico del rapporto con entrambi i genitori dello stesso sesso.

In questi due anni, il Parlamento è rimasto inerte. Nell’assenza di una decisione – in questo vero e proprio vuoto di politica – le famiglie omogenitoriali hanno continuato la loro battaglia. Una battaglia complessa, condotta davanti ai giudici e nelle amministrazioni comunali che, nelle pieghe dell’ordinamento, hanno trovato gli spazi per assicurare una qualche forma di protezione.

Tutto questo è tornato alla ribalta in questi giorni. Prima la decisione del Comune di Milano che, sulla base di una nota della locale Prefettura, ha dovuto interrompere le iscrizioni e le trascrizioni anagrafiche delle bambine e dei bambini con genitori dello stesso sesso. E poi l’approvazione, da parte della Commissione Politiche UE del Senato, di una risoluzione con parere negativo sulla proposta di Regolamento europeo relativa al mutuo riconoscimento dello stato di figlio all’interno dell’Unione.

Il piano giuridico

Il piano giuridico e quello politico sono strettamente intrecciati e l’analisi del primo non può prescindere dalla consapevolezza dell’influenza che su di esso ha il secondo. Nel mezzo, la vita di bambine e bambini in carne ed ossa e il diritto che cerca di trovare la via per avvicinarvisi.

L’assenza di una legge, l’ho già accennato, è decisiva. Vi sono state negli anni aperture nella giurisprudenza, soprattutto delle corti di merito. In particolare, a partire dal 2016, numerosi Tribunali e altrettanto numerose Corti d’appello hanno ritenuto possibile non solo la formazione di atti di nascita recanti l’indicazione di due madri per minori nati in Italia; ma anche la trascrizione di atti di nascita esteri con doppia maternità e, più faticosamente, di quelli con doppia paternità. Sulla base di queste aperture numerosi Comuni hanno iniziato ad effettuare iscrizioni e trascrizioni anagrafiche a favore delle bambine e dei bambini con genitori dello stesso sesso. Dal 2019 la situazione è mutata. Al momento si contano almeno sette decisioni negative della Corte di cassazione sulla formazione di atti di nascita interni con doppia maternità e due decisioni delle Sezioni Unite della stessa Corte di cassazione sull’impossibilità di trascrivere l’atto di nascita formato all’estero a seguito di nascita da gestazione per altri, con indicazione di due padri. In questo ultimo caso, in particolare, si è ritenuto che la modalità della nascita – la gestazione per altri, che il nostro ordinamento guarda con massimo disfavore, qualificandola come reato – impedisca all’atto di nascita estero di produrre effetti nel nostro ordinamento. Resta invece confermata la possibilità di trascrivere atti di nascita esteri con l’indicazione di due madri prevalendo, in questo caso, l’interesse del minore alla continuità dello status. Anche la Corte costituzionale non ha potuto che constatare tale situazione, rinviando la palla al legislatore per una improrogabile assunzione di responsabilità.

Adozione in casi particolari

In tutti questi casi, lo strumento di protezione è individuato nel ricorso all’adozione in casi particolari prevista dall’articolo 44, lettera d) della legge sulle adozioni del 1983. Uno strumento alternativo, ma non perfettamente equivalente alle iscrizioni e trascrizioni anagrafiche. Va ricordato, anzitutto, che l’accesso all’adozione in casi particolari per il secondo genitore dello stesso sesso non è previsto dalla legge, ma solo dalla giurisprudenza, per quanto consolidata. Così come molto diverse sono le prassi nei Tribunali per i minorenni, in termini di tempi e di concreti oneri: il procedimento adottivo, infatti, presuppone controlli – che possono essere anche penetranti – sull’idoneità genitoriale dell’adottante e sulle concrete condizioni di vita del nucleo familiare, affidati a psicologi e assistenti sociali. Altri limiti dell’istituto – come il carattere limitato degli effetti, e la necessità del consenso del genitore legalmente riconosciuto – sono stati superati dalla giurisprudenza costituzionale (per il profilo degli effetti) e di legittimità (per il profilo del necessario consenso). Quel che resta è l’onere aggiuntivo – che non è soltanto simbolico – di dover richiedere l’adozione di quello che è, nella vita quotidiana e dalla nascita, il proprio figlio o la propria figlia. E di doversi sottoporre a valutazioni di idoneità alle quali nessun altro genitore è costretto a sottoporsi. Un aspetto, quest’ultimo, sul quale si riflette troppo poco e che – almeno ad avviso di chi scrive – deriva in ultima analisi da una persistente diffidenza, o da vera e propria stigmatizzazione, verso la possibilità delle persone LGBTQI+ di essere genitori.

Il contesto politico

Soluzioni alternative esistono, come è dimostrato da numerosi disegni di legge già depositati in Parlamento (penso, tra gli altri, a quelli che portano la firma dei deputati Zan e Grimaldi e della senatrice Maiorino) e si muovono nel segno dell’eguaglianza. Soluzioni semplici, che estendono alle bambine e bambini con genitori dello stesso sesso le medesime tutele già previste per le famiglie eterogenitoriali.

Il contesto politico, tuttavia, è percorso da un conflitto lacerante e profondo sul tema. Lo dimostra la seconda vicenda di questi giorni, relativa alla proposta di regolamento europeo. Un atto fortemente voluto dalla Commissione von der Leyen fin dal suo insediamento, con un obiettivo molto semplice: assicurare che, in tutto il territorio dell’Unione europea, bambine e bambini possano circolare, assieme ai loro genitori, vedendo pienamente riconosciuto il proprio stato di figlie e figli. Un obiettivo apparentemente semplice e perfettamente coerente con i diritti derivanti dalla comune cittadinanza dell’Unione europea: ogni stato membro rimane libero di disciplinare come crede la filiazione, ma non può impedire ad atti di nascita formati in altro stato membro di produrre effetti. Non a caso, esiste giurisprudenza della Corte di giustizia che – nel 2021 e nel 2022 – ha già affermato questo elementare principio, proprio con riferimento a minori con genitori dello stesso sesso. Di nuovo, si tratta di considerare esclusivamente l’interesse del minore, in questo caso a circolare liberamente nell’Unione con (entrambi) i propri genitori, senza perdere uno dei due una volta attraversata la frontiera. La Commissione era chiamata a pronunciarsi esclusivamente sul rispetto del principio di sussidiarietà. Eppure, anche in questo caso, sono stati addotti argomenti strumentali. Si è detto, anzitutto, che il provvedimento avrebbe costretto l’Italia a riconoscere l’omogenitorialità quando invece è esplicitamente fatta salva la competenza degli stati a disciplinare la filiazione al proprio interno. E si è detto, soprattutto, che il provvedimento avrebbe consentito il riconoscimento diretto della filiazione nei casi di gestazione per altri. Anche in questo caso, non si è considerato – o non si è voluto considerare – che la GPA è espressamente prevista, nell’Unione, solo in pochissimi paesi (tra cui Grecia, Portogallo e a Cipro) e che possono accedervi solo coppie eterosessuali. Non è stato considerato, inoltre, che in molti degli stati dell’Unione che consentono il riconoscimento della doppia paternità in caso di nascita da GPA, questo non avviene mediante trascrizione automatica dell’atto di nascita estero, ma mediante procedure più complesse, in armonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e secondo un meccanismo talora simile a quello operante, come si è visto, in Italia. Infine, si è ignorato che la proposta di regolamento consente agli stati di far valere il limite dell’ordine pubblico interno.

La strumentalizzazione ideologica

Due vicende diverse tra loro, dunque, ma accomunate da un unico filo rosso: il rifiuto ostinato, da parte delle destre italiane ed europee, di affrontare la questione al riparo da strumentalizzazioni ideologiche, concentrando l’attenzione esclusivamente – e come diritto imporrebbe – sull’interesse di queste bambine e di questi bambini e sulla loro concreta esperienza di vita. E di farlo, magari, tenendo conto di decenni di ricerche che dimostrano che non vi sono sostanziali differenze, quanto a benessere psicologico nella crescita, tra minori con genitori di sesso diverso e minori con genitori dello stesso sesso: lo conferma ancora una volta, proprio in questi giorni, una serie di brevi video affidati dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi ai massimi esperti in materia e pubblicati sui canali social dell’Ordine.

Quel che è sicuro è che, per le famiglie omogenitoriali, l’assenza di riconoscimento e tutela è una dolorosa condizione di vita, che si protrae – in Italia – da decenni. Una sofferenza che si riaccende ogni volta che il dibattito pubblico, solo per poche ore, si infiamma nuovamente sul tema, salvo poi tornare a dimenticare. Aspettando che arrivi, finalmente, il tempo della politica.

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