Il giorno cerchiato nel calendario del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, è il 16 aprile. In questa data finalmente si procederà all’intitolazione del grigio palazzo dei Marescialli al giurista Vittorio Bachelet, ex vicepresidente del Csm ucciso dalle Brigate rosse il 12 febbraio 1980. Pinelli avrebbe di gran lunga preferito tenere la cerimonia nella data dell’omicidio, alla presenza dei vertici politici e istituzionali, ma soprattutto del presidente della Repubblica che del Consiglio è anche vertice.

Lo slittamento di oltre un mese dalla delibera del plenum del 7 febbraio non ha avuto cause ufficiali ma è stata inevitabile.

Ufficiosamente a rendere impercorribile un evento di tale portata il 12 febbraio è stato un pasticcio orchestrato involontariamente dallo stesso Pinelli, che il 18 gennaio si è presentato in una solitaria conferenza stampa – unicum nella storia del Consiglio – in cui ha sostenuto che il precedente Csm avesse «perso la sua funzione di organo di alta amministrazione, assumendone una di impropria attività politica». Dimenticando, probabilmente, che anche il precedente organo era presieduto dall’attuale capo dello stato. Sullo sgarbo istituzionale il Quirinale ha soprasseduto con un freddo silenzio, ma il calendario degli incontri ha subito un prudente slittamento.

Se Pinelli deve ancora prendere le misure del suo ruolo istituzionale, l’aria in Consiglio, tra le varie componenti togate e i consiglieri laici, non è migliore.

La Scuola superiore

A turbare il clima di lavoro, da ultimo, sono state le nomine dei membri del direttivo della Scuola superiore della magistratura. La pratica è proceduta a rilento in sesta commissione, dove il presidente di Area, Marcello Basilico, ha tentato di raggiungere l’unanimità senza successo. Alla fine, superato il termine del 30 gennaio di oltre un mese, il Consiglio si è spaccato in tre. Le tre correnti maggiori – Area, Unicost e Magistratura indipendente – hanno votato entrambe le delibere (una per la nomina dei sei magistrati, una per la nomina della professoressa ed ex presidente della Consulta, Silvana Sciarra). I due togati indipendenti con quella di Magistratura democratica si sono opposti pubblicamente rispetto al metodo, parlando di un rischio di «correntizzazione» e anche i laici di centrodestra si sono opposti.

Se proprio Basilico su Domani ha parlato di «compromesso su nomi che dovevano convincere una pluralità di sensibilità» e di «accordo su persone che, per curriculum e per visione sulla formazione, sono all’altezza della funzione cui sono chiamati», durante il percorso di scelta le critiche sono state feroci. Già a dicembre l’indipendente Andrea Mirenda aveva parlato di «trattative e magheggi» e Roberto Fontana ha espresso la sua contrarietà rispetto ai «criteri vaghi» per le nomine che provoca il rischio di poter in sostanza fase qualsiasi scelta, per poi creare una motivazione a posteriori facendo leva sulla discrezionalità. Di conseguenza, ha paventato l’esistenza di un problema ben più ampio all’interno del Csm: il rischio che le nomine dipendano dalle correnti e dai rapporti di forza tra esse.

In altre parole, l’accusa è che il “sistema”, così ribattezzato da Luca Palamara, di fatto continui indisturbato. Esattamente l’accusa che viene mossa anche da un gruppo di toghe esterno al Csm, ma che ha le proprie rappresentanze nell’Associazione nazionale magistrati. «All’interno del Csm però esistono fieri difensori delle tradizioni, che non hanno perso occasione di attaccare quei pochi coraggiosi che sin dall’inizio avevano previsto l’ennesima spartizione cencelliana, pienamente compiutasi anche stavolta», ha scritto Andrea Reale di Articolo 101.

In realtà, il caso della Scuola è stata un’eccezione anche nel teso rapporto tra i gruppi associativi. In questo caso c’è stato un compattamento tra la singola eletta di Magistratura democratica, Domenica Miele, e i due indipendenti Mirenda e Fontana (che viene da un passato in Md). Negli altri plenum, invece, la grande accusata è sempre Magistratura indipendente: la corrente conservatrice che è il gruppo di maggioranza relativa con otto eletti, marcia in sinergia con la componente laica di centrodestra che conta altri sei voti. Più il settimo del vicepresidente Pinelli, che in alcune nomine ha rotto la prassi dell’astensione e si è espresso, come nel caso della nomina del procuratore capo di Firenze, Filippo Spezia, che è stato eletto sul filo di lana proprio grazie al voto di Pinelli.

I laici

Per la prima volta nella storia recente del Consiglio si assiste a una componente laica fortemente organizzata, che si muove in modo compatto e uniforme, quasi sempre in accordo con Mi. «Una sorta di blocco di centrodestra allargato», lo definisce un consigliere, che in questo legge una strategia egemonica, ma anche il rischio concreto di una longa manus del governo dentro al Consiglio.

A riprova di questo, nella seduta di plenum del Csm del 6 marzo è avvenuto uno scambio di vedute tra consiglieri laici e togati che ben racconta il clima. Durante una discussione se concedere il rinvio di cortesia per una nomina, richiesto dai laici di centrodestra, il togato di Unicost Marco Bisogni ha definito la compagine laica un «quarto gruppo» in Consiglio, «che opera proprio come un gruppo di quelli tradizionali» e «con logiche tipiche dei gruppi di un tempo».

In altre parole, da tempo la percezione dei togati è che si sia formato un gruppo di laici che fa leva sui propri numeri per incidere – pur legittimamente – sulle decisioni del plenum. Prova eloquente è il fatto che, nello storico dei voti in plenum, i laici e Mi hanno fatto cartello.

In passato la dinamica era opposta: i laici erano tendenzialmente più svincolati dalla loro stretta appartenenza politica ed erano una minoranza più sparsa e mobile nelle dinamiche di voto. Ora, invece, le geometrie sono cambiate.

© Riproduzione riservata