«Con Nordio abbiamo fatto una riunione tre giorni fa e abbiamo parlato di tutto», ha giurato Giorgia Meloni a margine di un convegno sul fisco alla Camera. Eppure più che sussurri sono state grida a filtrare su un «fastidio» della premier per l’improvvida sortita del suo ministro della Giustizia, favorevole alla creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle indagini in corso a Perugia.

Allo stesso convegno era presente lo stesso Nordio, che ha abbozzato un sorriso. Distanza con Meloni? «Figurarsi se c’è distanza, nessuna distanza». Formalmente, quindi, via Arenula e palazzo Chigi sono separati solo dalle stradine che si snodano nel cuore di Roma. Circa un quarto d’ora a piedi.

L’impressione, però, è che per capire lo stato d’animo del ministro non si debba guardare a ciò che accade negli infidi palazzi del potere, ma tra le mura più familiari di un palazzo di giustizia. Mercoledì l’ex pm è stato in visita alla corte d’appello di Roma – presenti tutti i vertici degli uffici capitolini – e il suo intervento, letto bene, è ricco di segnali.

«La giustizia non dà un rientro politico favorevole», ha spiegato, e le risorse sono limitate, perché «vi è scarsa attenzione finanziaria». A fine pomeriggio, l’ennesima nota per raddrizzare il tiro: «strumentale travisamento delle mie parole». Ora, per la prima volta «c’è grande attenzione su investimenti e risorse». Al netto del dato economico, è la conclusione del suo ragionamento a colpire: «Quello della Giustizia è un ministero importante nella forma e non gradito nella sostanza».

Conclusione, questa, che sembra descrivere perfettamente anche il contesto attuale in cui Nordio appare sempre più isolato. Tra i meloniani ha guadagnato il soprannome di “infiltrato”, segno dell’ormai totale distanza tra il ministro e il partito che lo ha eletto.

L’avvicendamento

A distanza di un anno e mezzo dal suo insediamento, nella testa della premier, non è un segreto, avanza l’idea di liberare la scrivania che è stata di Palmiro Togliatti. Ma non mancano le remore.

Da un lato c’è il fatto che il ministro è stato il suo candidato al Quirinale e silurarlo significherebbe mettere in discussione quella coerenza che per Meloni è un tratto distintivo. Dall’altro c’è il fatto che non esistono, all’interno di FdI, personalità in grado di sostituirlo.

Una delle ipotesi in campo, che circola da settimane sia in ambienti giudiziari sia in quelli vicini al centrodestra, sarebbe di portare alla Giustizia il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. Anche lui ex magistrato e toga di Magistratura indipendente. Ma chi conosce bene Meloni è certo che l’avvicendamento non avverrà. Se in apparenza un incarico da ministro è una promozione, nel caso di specie il sottosegretariato di Mantovano è molto più vicino al cuore del potere, ed è anche autorità delegata ai servizi. Con la penuria di classe dirigente che sia non solo fedele ma anche preparata, la premier non avrebbe alcuna intenzione di privarsi del suo uomo più efficiente per mandarlo in un dicastero che non a caso, nel manuale Cencelli, è considerato di seconda fascia.

Il problema

Eppure il problema rimane. Ogni volta che Nordio apre bocca c’è il rischio di dover riparare qualche danno. All’inizio lo si imputava alla sua poca abitudine al ruolo politico. Oggi, invece, il timore considerato più che fondato è che le sue sortite siano frutto di un disegno meno casuale.

Secondo fonti di via Arenula la dichiarazione sull’opportunità di una «commissione d’inchiesta parlamentare» sui fatti di Perugia, scavalcando l’Antimafia, sarebbe frutto sì di un informale abboccamento con il collega Guido Crosetto, ma a suggerirgli la soluzione sarebbe stata la sua vicecapo di gabinetto vicaria, Giusi Bartolozzi. La stessa che avrebbe ispirato l’invio degli ispettori ministeriali negli uffici di Milano dopo la fuga del russo Artem Uss e che gli avrebbe suggerito di alzare i toni anche sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito.

Proprio questo è uno dei grattacapi: l’eccesso di potere di Bartolozzi, aumentato ancora con l’addio del capo di gabinetto Alberto Rizzo, che ha chiesto di rientrare in magistratura.

Esasperato, secondo fonti togate, proprio dal ruolo debordante di quella che avrebbe dovuto essere una sua subordinata. A oggi, fanno sapere fonti ministeriali, «finché il Csm non deciderà sulla richiesta di rientro in ruolo di Rizzo, al ministero rimarrà tutto uguale». Dunque nell’attuale limbo le redini sono in mano a Bartolozzi.

I candidati

Fosse per Nordio, dovrebbe essere lei a prendere il posto di Rizzo. Ma Mantovano ha posto il veto sulla “zarina”. L’opinione è che per il ruolo serva un nome autorevole ma nello stesso tempo istituzionale, per archiviare la stagione delle mine vaganti.

Tra i nomi vagheggiati c’era quello dell’ex consigliere giuridico di Elisabetta Casellati, Claudio Galoppi, che però sarebbe tramontato da quando è diventato segretario di Magistratura indipendente. Abbandonare la carica a così stretto giro per una nomina ministeriale metterebbe in difficoltà il gruppo, che oggi è maggioranza relativa al Csm, e sarebbe un passaggio che molte toghe considerano improprio.

Eppure la lista dei potenziali candidati non è infinita. Guardando solo tra le toghe conservatrici dell’area Mantovano che in passato hanno avuto incarichi ministeriali prestigiosi, i papabili sono: Paolo Porreca, ex vicecapo dell’ufficio legislativo al ministero della Giustizia, l’ex vicecapo di gabinetto Roberto Mucci e Alessio Scarcella, già al vertice dell’ufficio per l’attività internazionale.

Nomi di peso di magistrati di Cassazione, che però correrebbero il rischio di bruciarsi in un ruolo complesso e con l’onere di arginare Bartolozzi. Peraltro, con l’incognita sulla permanenza di Nordio. «Se ne parlerà dopo le europee», è la sintesi.

La finestra del rimpasto di governo potrebbe aprirsi nel caso in cui alcuni ministri decidessero di candidarsi. E, nel mazzo delle sostituzioni, potrebbero rientrare anche quelli meno graditi alla premier.

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