Da decenni il dibattito italiano sulla riforma della Costituzione s’incarognisce sul tema dei poteri dell’esecutivo, ritenuto troppo esposto alla volubilità delle maggioranze parlamentari. Nei quartieri della destra (ma non solo) si auspica quindi un premierato forte o persino il presidenzialismo. A questa devozione per la stabilità, come per un istinto pavloviano, si associa il richiamo al ruolo della magistratura quale “bocca della legge”.

Il giudice, si dice, ha da applicare la legge seguendo la sua lettera al dettaglio e, nel caso di incertezze, deve indovinare, o meglio divinare, l’intenzione del legislatore nel momento in cui l’ha emanata. All’opposto, come evidenziano le recenti battaglie sulle trascrizioni degli atti di nascita delle coppie omogenitoriali o nell’ancor più recente caso della giudice Apostolico, la magistratura troppo spesso esonda: le/i giudici, si dice, contaminano l’applicazione della legge con concezioni politiche personali, minando così alla radice la credibilità del loro operato.

Quest’idea antidiluviana del diritto si lega, non a torto, alla tradizione dei sistemi giuridici degli Stati dell’Europa continentale, secondo cui l’attività della magistratura non rientra tra le fonti del diritto. Produttore della legge è solo il Parlamento, quale unico rappresentante legittimo della volontà popolare. D’altro canto – ci si domanda – come potrebbe fare le leggi, o anche solo incidere sulla loro formulazione, qualcunə che non fosse legittimamente elettə con votazione popolare?

Contro le ingiustizie

Sarebbe un’azione illegittima, che sfrangerebbe gli equilibri dell’ordinata ripartizione dei poteri. Eppure, una tale concezione oggi sa di mitologia antiquata, quella nata con lo Stato di fine Settecento e irrancidita già verso la metà del Novecento.

Con sempre maggiore frequenza, cittadine e cittadini si rivolgono alla magistratura per lenire le ingiustizie ingenerate proprio dalla vaghezza o dai vuoti della legge. Non solo coppie omogenitoriali o migranti sottopostə a misure di restrizione ingiustificate, ma anche i riders che vogliono vedersi riconosciuta la natura subordinata del loro impiego oppure chi invoca misure più chiare e rigide sui molti abusi perpetrati in carcere. Questə cittadinə chiedono di fatto al potere giudiziario di porre rimedio alle omissioni del potere legislativo.

Già nella risalente sentenza n. 276 del 1974, la Corte Costituzionale parlava di “diritto vivente” per denotare quelle condizioni in cui l’interpretazione di una legge contribuisce a stabilirne il significato. Come ogni testo scritto, inevitabilmente più povero di tutte le circostanze concrete che intende normare, la legge è irta di ambiguità e incertezze.

In quei casi, chi giudica di fatto si fa parte di un processo assai più ampio di legislazione, perché contribuisce a specificare cosa una legge dice davvero e quindi come dev’essere intesa. Insomma, si restituiva già decenni or sono l’idea che interpretare e applicare una legge implica, almeno in parte, stabilirne il significato. E quando questo accade – e accade molto più spesso di quanto lascino intendere le polemiche – come si può pretendere che le idee, le convinzioni, le credenze e persino i pregiudizi di chi giudica vengano messi da parte?

Il diritto vivente

E, d’altro canto, non costituiscono forse parte cruciale dell’agone politico quelle azioni con cui, mediante ricorso ai tribunali, una cittadinanza vigile e operosa fa leva sulle ambiguità delle leggi proprio per rivederle, emendarle, dimostrarne l’irragionevolezza e l’ingiustizia?

Ma oggi il “diritto vivente” è diventato qualcosa di assai più incisivo. Specie nell’operato della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, esso è un vero e proprio dispositivo che autorizza la Corte a incentivare la produzione di leggi nazionali, ribaltare sentenze, comminare sanzioni agli Stati.

Di più: la Corte ascolta le parti e convoca espertə per capire se e in che misura una certa legge “riflette” le mutate idee e convinzioni della cittadinanza e quindi chiede ai Parlamenti di adeguarsi a una società che va mutando. Su questa scia, oggi le Corti nazionali, specie quelle alte, contribuiscono di fatto alla produzione del diritto.

Per questa ragione, sarebbe ora di uscire dalle secche di una tripartizione dei poteri da manuale di primo Novecento e riconoscere l’attività di un corpo, quello della magistratura, che, nel bene e nel male, opera da supplente di un Parlamento che da decenni aggira bellamente le urgenze segnalate dalle Corti.

Questo proprio perché si metta mano a un problema che – su questo non ha torto chi invoca cautela – sta e rimane: la magistratura è un organo che si autoregola e che non gode del suffragio popolare. Anziché incavillarsi su come rendere il o la Presidente un reuccio o una reginetta, sarebbe opportuno ragionare sui modi di regolare, legittimare e rendere sempre più funzionale il ruolo attivo del diritto vivente.

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