E’ stato un convegno molto denso di contenuti e di emozioni che ha evidenziato la crisi, l’inabissarsi della solidarietà nel nostro Mediterraneo.

Abbiamo sentito di iniziative politiche nazionali ed internazionali, di iniziative normative e di sanzioni amministrative che hanno annichilito la possibilità di portare aiuto in mare, a favore di soggetti economicamente svantaggiati che si trovano in una oggettiva condizione di bisogno (e non di un bisogno qualsiasi, ma del bisogno essenziale di avere possibilità di vita, di salvare la propria vita).

Obiettivo di queste politiche è stata la sostanziale neutralizzazione dell’operato di quelle organizzazioni che fanno della solidarietà il loro scopo e che vedono ostacolata, boicottata, intimidita questa loro vocazione.

Una vocazione che trova principio e fondamento nella tutela dei diritti fondamentali; non solo di quelli formalizzati in norme, ma prima ancora di quelli sviluppati nella storia delle relazioni tra le persone, sino a connotare la stessa umanità. Il quadro fosco che è emerso dalle parole che abbiamo ascoltato, è quello che vuole questa politica inibitoria, agire in maniera occulta se non proprio subdola (penso alle sanzioni amministrative ed ai sequestri), per attenuare la consapevolezza sociale della gravità di queste scelte che, ostacolando la solidarietà, mostrano l’irriducibile disumanità delle politiche di gestione dei flussi migratori.

Ed agli effetti di queste politiche, si aggiunge una narrazione mediatica che, criminalizzando la solidarietà, ha finito per introiettare nell’opinione pubblica la percezione di ordinarietà, se non proprio d’irrilevanza del numero crescente di persone che muoiono in mare.

La prospettiva “altra” dei magistrati

Ma perché un gruppo di magistrati ha sentito la necessità di avere una “prospettiva altra” sulla gestione dei flussi migratori? Perché non ci siamo accontentati di fare un convegno sui temi di diritto sostanziale e processuale, coinvolti in queste vicende?

La gestione dei flussi migratori si inserisce nel tema generale delle narrazioni oggi dominanti, finalizzate ad anestetizzare la sensibilità sociale, secondo una logica che ha introdotto e sta, eticamente, legittimando nel sentire popolare il criterio discretivo delle cd. ego-libertà, inteso quale principio cardine di regolamentazione dei rapporti sociali; una sorta di imperativo per cui è giusto ed è buono, tutto quello che mi conviene.

Un virus culturale che ci riguarda anche come magistrati perché finisce per intaccare i principi cardini della nostra Costituzione, desumibili dagli artt. 2 e 3 della Carta che possono essere riassunti in questa affermazione che è insieme un onere individuale ed un sollecito collettivo: posso essere felice solo se lo sono anche gli altri.

Con questa premessa possiamo tornare alle domande sul perché di questo convegno.

Gli obiettivi di Md

Siamo un gruppo di magistrati che tenta (lo sottolineo: tenta! Anzi sarò più aderente alla realtà: si propone) di interpretare il principio di indipendenza ed autonomia della magistratura non come un privilegio di casta, ma come uno strumento a garanzia e tutela dei diritti fondamentali.

Noi crediamo che i padri costituzionali abbiano previsto quella autonomia ed indipendenza, perché erano consapevoli che il nucleo essenziale dei diritti fondamentali dell’individuo (di ciascuna singola persona) sacralizzati dalla Carta, dovesse resistere anche alle iniziative normative di contingenti maggioranze parlamentari che li avessero messi in crisi.

Per ciò, noi riteniamo che la magistratura nell’esercizio giurisdizionale abbia un mandato costituzionale di resistenza anti-maggioritaria, assolutamente doveroso in occasione della violazione dei diritti fondamentali.

Il senso di questo convegno, dunque, è quello di offrire ai magistrati - ma l’ambizione, in vero, è a tutti i giuristi ed a chi si occupa (meglio si prende cura) di diritti - di ampliare i loro orizzonti; in particolare, vorremmo consentire a ciascun magistrato di potere comprendere meglio la realtà in cui si innesta quella specifica, singola, unica vicenda che è chiamato a trattare, fascicolo per fascicolo, quando questa è in qualche modo connessa alla gestione dei flussi migratori. Il rischio – altrimenti – è quello di ridurre la risposta di giustizia, l’esercizio della giurisdizione nel caso concreto, ad un giudizio in cui le indispensabili valutazioni tecnico-giuridiche sono svilite da un approccio burocratico e formalista, incapace di comprendere autenticamente la vicenda sottoposta al vaglio giurisdizionale.

La sentenza Lucano

Noi crediamo che la riduzione della magistratura ad una casta burocratica chiusa in se stessa, metta in crisi il suo ruolo istituzionale e trasformi la sua indipendenza ed autonomia da valori posti in funzione del presidio dei diritti fondamentali costituzionalmente non coercibili, ad inaccettabile privilegio che finisce per svilire quei diritti fondamentali che doveva tutelare, con l’alibi della gretta applicazione della legge, del tecnicismo formalista, inadatto a cogliere la reale posta in gioco nel concreto esercizio della giurisdizione.

Questo rischio è ben presente in una vicenda attualissima, evocata più volte nel corso dei nostri lavori: la condanna di Mimmo Lucano e delle persone, impegnate con lui nella gestione dell’accoglienza dei migranti a Riace.

In queste ore, dentro la magistratura associata, alcuni gruppi hanno invocato interventi a tutela dei giudici di Locri, investiti dalle critiche per l’entità della pena.

Non possiamo valutare una sentenza, senza prima conoscerne le motivazioni. Ma possiamo interrogarci sulle ragioni per cui una sentenza suscita questo clamore.

Ed abbiamo un dato oggettivo, da tutti verificabile: l’entità della pena; un elemento della decisione su cui ogni giudice esercita una discrezionalità che è anche figlia di una sensibilità valoriale. Una pena quella inflitta a Lucano, pari a quella comminata, a queste latitudini, per gravi reati di mafia.

Dobbiamo prendere atto che – a prescindere dalla volontà dei giudici, per comprendere la quale dobbiamo attendere le motivazioni – la misura della pena è stata intesa nella percezione pubblica diffusa (sia quella che si è espressa in senso favorevole, sia quella che si è espressa in senso contrario agli imputati) come una condanna inflitta non solo a loro, agli imputati, ma all’intero sistema di accoglienza, organizzato a Riace.

A questo, dunque, una parte dell’opinione pubblica si è ribellata. Questa parte dell’opinione pubblica, infatti, riconosce in quel sistema di accoglienza, una modalità innovativa, avanzata, da prendere a modello, anche se singole persone possano averne abusato e possano avere commesso dei reati. Il messaggio sembra essere: potete condannare le persone, ma una pena di tale portata finisce per condannare un intero modello di accoglienza.

La richiesta sbagliata all’Anm

Ecco allora che la richiesta di interventi dell’Anm a tutela di una siffatta sentenza, mostra di non comprendere le ragioni di queste reazioni, accrescendo la percezione pubblica di una magistratura chiusa, auto-percepita come casta sacerdotale che tutela i suoi riti e le sue pronunce; una magistratura che non si interroga sugli inevitabili effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critiche, sollevando l’alibi del tecnicismo. Aleggia in queste posizioni l’ombra del giudice sacro bocca della legge, così amato da certa politica securitaria ed invocato dai poteri economici dominanti.

L’esatto opposto dello spirito di questo convegno che ha avuto l’ambizione - speriamo colta almeno in parte - di mettere la magistratura a confronto con una realtà complessa e per larghi aspetti finita in un cono d’ombra dentro il quale i diritti fondamentali delle persone sono gravemente aggrediti.

Non lo facciamo con un atteggiamento saccente o di superiorità professionale, ma anzi nella consapevolezza che metterci a confronto con queste problematiche ci rende più responsabili e renderà meno giustificabili i nostri errori che – ahimè – continueremo a fare. 

Ma siamo convinti che, con queste nuove consapevolezze, potremo svolgere il nostro lavoro - che, a volte, limitando la libertà delle persone e determinando la sorte di diritti personalissimi, ci può illudere di essere dotati di una speciale, quanto insidiosa superiorità umana - con una prossimità alle vicende ed una umiltà cognitiva che costituisce un efficace antidoto alle deviazioni ed un buon viatico per un esercizio della giurisdizione attento alla tutela dei diritti fondamentali.   

Le prospettive future, purtroppo, non sono rosee. L’aggressione ai diritti fondamentali potrà essere ancora più incisiva e sempre più subdola. Costruire un fronte di resistenza costituzionale per la loro tutela è un obiettivo che impegna Magistratura democratica. Ma consapevoli dei nostri molti limiti, chiediamo di farlo con tutti quelli che sentono l’urgenza di impegnarsi su questo fronte.

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