Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere l’acqua potabile ancora non c’è. La temperatura esterna è di circa dieci gradi, che però scendono nel corso della notte e le celle non sono riscaldate.

Il giorno di Natale è prevista pioggia e così anche nei giorni seguenti, a rendere il clima ancora meno di festa nel carcere diventato tristemente noto alle cronache nel corso del 2021 quando Domani ha raccontato e reso pubblico il pestaggio dei detenuti da parte di 283 agenti della polizia penitenziaria, avvenuto il 6 aprile 2020. Allora, i reclusi rivendicavano acqua potabile, mascherine e gel per difendersi dal contagio e risposte sul virus nella struttura.

Proprio come nei ricordi di un ex detenuto, che nell’istituto ha passato alcuni mesi e anche le festività natalizie. Quando gli si chiede cosa ricordi con più chiarezza, risponde: «L'acqua marrone che usavamo per lavare i denti. In quel carcere si entra con i denti e si esce senza, perché l’acqua potabile ancora non c’è. Io mi sto ancora curando».

E questo nonostante già allora i reclusi portassero avanti una battaglia che lui stesso definisce «inutile», per chiedere l'allacciamento con la condotta idrica comunale. «Nella cella non c'era neanche la doccia. Dovevamo uscire in corridoio per farla».

Oggi, a più di un anno di distanza dai pestaggi e terminata l’onda del clamore mediatico, nulla sembra essere cambiato.

Nulla è cambiato

Santa Maria Capua Vetere non è diventato un carcere modello, anzi. Anzi, le condizioni sono rimaste immutate. Non solo per il fatto che continui a mancare l’acqua potabile, ma anche dal punto di vista sanitario. A mostrare come l’immobilismo -o forse l’indifferenza una volta spenti i riflettori- siano la cifra dell’atteggiamento nei confronti del carcere e di questo istituto in particolare è il caso del detenuto al quale è stata somministrata una dose di vaccino non diluita che valeva per sei. Doveva essere spostato, ma ad oggi è ancora nel carcere “Francesco Uccella” e qui trascorrerà il Natale un altro anno. «Abbiamo chiesto decine di volte il trasferimento di questo detenuto a Bergamo, ma il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria non ci ascolta», dice la garante dei detenuti di Caserta Emanuela Belcuore.

E il suo non è un caso isolato. Sia nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che in altri istituti campani, la garante ha raccontato anche dell'aumento degli arrivi nel carcere da parte di detenuti provenienti dalla regione Lazio. «Capisco lo sfollamento dalle altre carceri, ma non andiamo a ingolfare il Francesco Uccella che sta provando a risorgere grazie anche all'impegno della nuova direttrice. Dobbiamo rendere il carcere di Santa Maria un istituto modello, queste scelte non vanno in questa direzione», dice. Le carceri campane oggi sono guidate da Carmelo Cantone, provveditore già per Lazio, Molise e Abruzzo e dal luglio scorso provvisoriamente provveditore anche in Campania.

I contagi aumentano

Come nelle altre carceri italiane, infatti, il sovraffollamento è costante ma a soprattutto si è aggravata la situazione dei contagi: proprio al reparto Nilo, decine di detenuti si sono contagiati arrivando alla cifra record di 61, addirittura più di quelli di un anno fa nello stesso periodo, in piena emergenza pandemica. «A Santa Maria Capua Vetere il focolaio è sfuggito ad ogni controllo», ha ammesso anche il segretario generale del sindacato polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo.

Del resto, come ha spiegato Belcuore, «Stimiamo che non siano vaccinati tra il 30 e il 40 per cento dei detenuti, praticamente uno su tre. Questo perchè l’obbligo di vaccinazione esiste solo per gli agenti».

Il problema non sono i detenuti no-vax – pochissimi – ma il fatto che non ci sono gli operatori sanitari per somministrare i vaccini, per questo la garante ha chiesto un camper dell’Asl in carcere per portare avanti a tappeto la campagna vaccinale. Altrimenti il cluster rischia di allargarsi ancora in una struttura che, nonostante l’attenzione dichiarata dalle autorità istituzionali e politiche, è rimasta abbandonata a se stessa. «Bisognerebbe anche chiedere i tamponi oppure il green pass all’ingresso sia agli avvocati che ai familiari dei detenuti, che possono essere veicolo di contagio per chi sta all’interno. Ma la situazione attuale è questa», spiega la garante Belcuore.

Che tutto rischi di sfuggire di mano lo dimostra il fatto accaduto due settimane fa. Il 14 dicembre, quando è stato trovato  l’ennesimo detenuto positivo, tre reclusi del terzo piano hanno aggredito alcuni agenti. La situazione è subito rientrata.

Se nelle celle si vive all’addiaccio e con la paura del contagio, anche la polizia penitenziaria protesta. I sindacati, infatti, hanno chiesto che l’obbligo vaccinale venga disposto anche per i detenuti, oltre che l’introduzione del green pass obbligatorio per avvocati e familiari che accedono al carcere per i colloqui. «Siamo in piena quarta ondata e, in assenza di questi due semplici provvedimenti, si rischia che situazioni analoghe possano verificarsi in altre strutture penitenziarie dove il sovraffollamento unito all’esiguità di personale sono elementi peggiorativi di una situazione incancrenita da tempo», ha scritto in una nota Giuseppe Moretti, presidente campano dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria.

Visto l’aumento dei contagi, i detenuti sono stati spostati in altri reparti, ma insufficiente sembra essere anche l’infermeria centrale della struttura, dove sono ricoverati anche detenuti malati di tumore. «L'area sanitaria è carente perché manca il personale, gli stessi medici disertano il carcere come scelta. La cosa spaventosa è che manca la figura della psichiatra, tranne una alla sezione Nilo dove ci sono detenuti con disturbi mentali», dice la garante Belcuore. Nell’istituto penitenziario, infatti ci sono solo psicologi «ma in numero totalmente inadeguato».

Un Natale difficile

Che quello che sta per arrivare sia un Natale se possibile ancora più difficile a Santa Maria non lo denuncia solo la garante. Anche la stessa polizia penitenziaria denuncia la gravità della situazione, perchè manca personale per fare la sorveglianza proprio durante i giorni festivi a causa dell’incremento non solo dei detenuti positivi, ma anche degli agenti. «Non riusciamo a capire come sarà possibile far fronte ad una situazione davvero complicata persino per i normali turni di servizio», ha detto Di Giacomo.

Il rischio, se i contagi continuano ad aumentare e contemporaneamente diminuisce il numero di chi presta servizio, è che si debbano ridurre le visite in carcere, che soprattutto sotto le feste sono l’unica fonte di sollievo per i detenuti, almeno per quelli di loro che possono essere raggiunti dalla famiglia. Ma una scelta di questo tipo verrebbe vissuta come l’ennesima afflizione per i reclusi, rendendo ancora più difficile la situazione già tesa, soprattutto se una simile misura venisse adottata durante il periodo delle festività. Anche perchè proprio la riduzione dei colloqui con le famiglie, sommata all’emergenza pandemica, è stata una delle micce che hanno scatenato l’esasperazione dei reclusi proprio nei giorni della primavera 2020, in cui in alcuni penitenziari si sono scatenate le rivolte.

I ricordi di un ex detenuto

Che nulla, nel carcere di Santa Maria, ricordi anche solo lontanamente il Natale però è un fatto. Nei ricordi di chi ha trascorso lì alcuni mesi da detenuto, la durezza di quei giorni dietro le sbarre di uno degli istituti più difficili d’Italia è ancora impressa nella memoria.

«Potevamo fare entrare in carcere venti chili di prodotti al mese, tra cibo e abbigliamento», racconta. Troppo poco, per considerare le festività natalizie come un momento speciale. A tentare di sopperire, però, era scattata la solidarietà reciproca tra detenuti. «Per allestire almeno un minimo di clima natalizio ci siamo accordati tra compagni di cella. Ognuno faceva entrare qualcosa per trascorrere un natale quasi normale».

E così racconta che era stato possibile avere un po’ di spaghetti, la carne, l'agnello, «insomma, i prodotti della tradizione. Avevo un compagno di cella calabrese più giovane che ha preparato il nostro pranzo di natale, se così possiamo chiamarlo». Quel poco di consolazione possibile, per chi non ha alternative e spesso nemmeno più speranza.

 

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