Nella guardiola del carcere di San Vittore sono arrivati altri panettoni regalati da associazioni e benefattori della città, il che significa che ce ne sarà almeno uno per cella e tutti i detenuti potranno averne almeno una fetta per il giorno di Natale. Sono anche queste piccole cose a fare un po’ la differenza, spiega suor Anna Donelli, volontaria in carcere da più di dieci anni.

«Avevamo anche organizzato eventi a piccoli gruppi per potergli far fare un po’ di festa e distribuire qualche cioccolatino, ma il nuovo picco di contagi all’esterno e soprattutto in Lombardia ci ha costretto a sospendere tutto», racconta. «Con fatica nel corso dell’anno eravamo ripartiti con le attività, tornando quasi come prima della pandemia.

Questa nuova battuta d’arresto non ci voleva proprio», aggiunge, spiegando che anche l’ultimo giorno di scuola, venerdì scorso, è stato sospeso. Dentro al carcere, infatti, si riversano a cascata tutte le restrizioni imposte all’esterno. Ma dietro le sbarre ogni ulteriore privazione pesa immensamente di più, soprattutto durante il Natale.

I momenti di festa sono i più dolorosi per i detenuti, che percepiscono in modo ancora più acuto soprattutto la distanza dalle famiglie. Con la pandemia, infatti, gli accessi al carcere sono resi ancora più complicati. I colloqui rimangono, ma le prescrizioni costringono a incontri separati dal plexiglas, soprattutto nei casi di non vaccinati.

«In queste condizioni non ci si può nemmeno dare un abbraccio e così il clima è ancora più pesante e alcuni parenti scelgono di non venire nemmeno per Natale», spiega Ornella Favero, direttrice e fondatrice della rivista Ristretti Orizzonti del carcere di Padova.

«Le famiglie dei nostri detenuti spesso vengono da lontano, da Reggio Calabria o dalla Sicilia, e quindi possono fare poche visite. Prima, quando venivano era l’occasione per portare cibo o qualche vestito. Ora anche questo è bloccato e spesso i detenuti non possono ricevere nulla, con la direzione del carcere che motiva il no con il rischio di contagio», aggiunge.

L’alibi della pandemia

Dopo lo scorso Natale vissuto nell’emergenza e un anno difficile, tutti speravano in un allentamento o comunque una maggiore organizzazione. Invece tutto dipende ancora dalle singole strutture detentive, dalla rete di volontari che lavora e dalla variabile imponderabile del virus.

L’aspettativa, infatti, era di poter arrivare a queste festività in condizioni migliori rispetto all’anno passato, invece «anche la pandemia rischia di diventare l’alibi per non fare nulla e perpetrare le disfunzioni del carcere», conclude Favero. Le vaccinazioni obbligatorie agli agenti e i controlli stringenti ai volontari avrebbero dovuto produrre almeno una riduzione dei limiti all’accesso in carcere, invece non ovunque è successo e per questo il clima è quello dell’attesa frustrata e delle aspettative deluse.

«Il carcere ribolle, nei detenuti vediamo che la speranza si sta affievolendo», dice Nicola Boscoletto, che nel carcere di Padova gestisce il lavoro esterno con la cooperativa sociale Giotto. Sabato scorso ha potuto organizzare un piccolo momento per scambiarsi gli auguri con una sessantina di detenuti e uno di loro, anziano, gli ha detto: «Sento che il legame con la mia famiglia si sta sciogliendo. Sono stati bravi a seguirmi per 24 anni, ma adesso si sfalda tutto».

Le videochiamate

Piero Cruciatti / LaPresse

Proprio questo senso di rassegnazione è la cosa peggiore: «Non solo non si vede mai la fine, ma non si vede nemmeno un significato nel percorso che si fa. Così c’è solo il tempo che passa e, quando gli anni iniziano a sommarsi, inevitabilmente si comincia a non vedere più nulla davanti», spiega Boscoletto.

Proprio questo buco nero, a Natale, è ancora più scuro perché si sente con tutta la durezza la distanza da casa e dai propri cari. Una distanza che viene colmata almeno un poco e nemmeno ovunque solo dalla tecnologia, che è l’unico elemento positivo di progresso che la pandemia ha portato in carcere.

«Per molti detenuti sono stati gli unici momenti di sollievo negli ultimi due anni. Le videochiamate hanno permesso loro di rivedere le loro case, magari i visi dei genitori anziani che non incontrano da anni», spiega Favero. Uno di loro, grazie alla possibilità di poter chiamare anche in serata, ha potuto per la prima volta dare la buonanotte alla figlia piccola. L’obiettivo, adesso, è far diventare prassi riconosciuta questo piccolo passo avanti in luoghi in cui pure manca tutto il resto.

Infatti, «la maggior parte delle carceri è al freddo, con i detenuti che devono arrangiarsi con l’acqua fredda nelle stanze in pieno inverno e spesso è così anche per le docce», spiega Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti del Lazio. In questa regione la situazione è peggiore rispetto ad altre carceri: le strutture sono fatiscenti e in alcuni giorni manca il personale che porta i detenuti negli spazi dove si possono svolgere le videochiamate. Come altrove, anche nel Lazio gli eventi natalizi sono tutti stati bloccati dalla Asl, che non ha autorizzato i pranzi organizzati dalla comunità di Sant’Egidio e i piccoli festeggiamenti che erano consuetudine fino a due anni fa.

Il sovraffollamento

L'albero di Natale costruito con 350 bottiglie di plastica dai detenuti di San Vittore

Stramaccioni descrive la situazione attuale come quella di una calma apparente, in cui però il disagio e la tensione stanno crescendo. «Il sovraffollamento continua ad essere il problema: stanno entrando molti anziani per cui non si trovano strutture adatte, mancano le attrezzature per gli psichiatrici che sono difficilissimi da gestire». Anche perché gli spazi sono rimasti sempre gli stessi, ma il covid ha imposto di creare aree nel carcere in cui isolare chi entra.

Con il risultato che nelle altre ali i detenuti vivono ammassati anche in cinque per cella, come succede a Roma. «E in queste condizioni come si fa a spiegare ai detenuti che tutte le loro attività sono limitate a causa del covid, perchè va rispettato il distanziamento?», si chiede la garante. Nuovi focolai, per ora, non sono scoppiati, ma la situazione è al limite.

Proprio contro il sovraffollamento, durante il congresso di Nessuno Tocchi Caino che si è svolto il 17 e 18 dicembre dentro il carcere milanese di Opera e in collegamento con Rebibbia e Parma, la presidente Rita Bernardini ha ribadito la volontà di continuare lo sciopero della fame iniziato il 5 dicembre scorso. «Dai dati del ministero risulta che nei 189 penitenziari gli spazi effettivamente disponibili sono 47.371,  a fronte però di 54.307 detenuti. Il sovraffollamento è del 114,6 per cento», ha detto Bernardini.

Una situazione di sofferenza che varia però da istituto a istituto e che durante le feste è ancora più gravosa. In particolare, la situazione più drammatica è quella di Brescia, dove il numero di detenuti in più rispetto agli spazi è del 198 per cento. «Per questo Nessuno tocchi Caino ha scelto di passare proprio a Brescia l’ultimo dell’anno», dice la tesoriera Elisabetta Zamparutti, «mentre il 1 gennaio faremo una visita ispettiva a Opera».

Proprio in concomitanza del Natale, allora, il silenzio delle istituzioni si fa più forte. Una delle speranze era che venisse accolta la proposta dei garanti dei detenuti di portare a 75 i giorni di liberazione anticipata ogni 6 mesi scontati con buona condotta. Oppure di consentire un giorno di liberazione anticipata per ogni giorno di covid. Oppure ancora di favorire la legge 199, che permette l’accesso alle misure alternative sotto i 18 mesi di pena ancora da scontare. «Invece, siamo ancora all’anno zero», dice Stramaccioni, «il governo ha previsto ristori solo per i liberi». 

Il presepe

Il presepe costruito con materiali di riciclo dai detenuti di San Vittore

In questa situazione fatta di piccole e frustranti difficoltà di tutti i giorni, la necessità dei detenuti è di dare un senso al tempo speso dentro al carcere. Succede a Padova, dove Boscoletto ha raccontato la sorpresa quando ha visto che nelle aree di lavoro, già ai primi di dicembre, i detenuti allestivano presepe e albero di Natale. Lo stesso è stato fatto a San Vittore, grazie al progetto “Parole in circolo in città”, coordinato da Ilaria Scauri, che insegna ai detenuti a migliorare gli spazi del carcere.

In questo caso, il progetto è stato frutto di una sinergia interna: «La comandante della polizia penitenziaria ci ha chiesto di realizzare qualche addobbo natalizio e abbiamo creato un albero di natale di due metri fatto di 350 bottiglie e un presepe di quattro metri, con materiale di riciclo», ha spiegato Scauri. Venerdì scorso San Vittore è stato chiuso agli esterni a causa del covid, ma i detenuti hanno potuto comunque montare i manufatti nello spazio antistante l’ingresso, così che avvocati, personale e visitatori possano vederlo. 

Non solo, «la sfida è stata dimostrare alla comandante che potevano fare un buon lavoro, lei è venuta a vedere il risultato e si è congratulata. Qualcosa di non scontato dentro le mura del carcere, che ha fatto avvicinare due mondi antitetici», ha concluso Scauri. Inoltre questo laboratorio si evolverà in un altro progetto, per realizzare oggetti di uso comune nel carcere e questa prospettiva di futuro è motore che aiuta i detenuti a immaginare una prospettiva oltre le sbarre.

La speranza per l’anno che verrà, da parte della rete fitta di volontari e associazioni, è che l’intervento del legislatore arrivi «non per approvare nuove leggi ma per applicare quelle che ci sono», aggiunge Boscoletto. Anche questo basterebbe per avere un carcere che faccia sentire meno invisibile chi è recluso.

© Riproduzione riservata